I “Ribelli della montagna” e… l’istantanea di una ferita

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    I “ribelli” si svegliano presto, se mai vanno a dormire. Ore sette di domenica mattina: arrivano come una lama al parcheggio della Malpensata e gli sbadigli per prendere fato a pieni polmoni dalle bocche della memoria. La marcia partigiana apre i battenti nel grigiore asfissiante della città, il primo appello per la tirata del secondo punto d’approdo, all’ex cinema Mirage di Clusone. In mezzo una lingua di strada e “Appunti partigiani” dei Modena nelle orecchie… “La giustizia è la nostra disciplina, libertà è l’idea che ci avvicina, rosso sangue è il color della bandiera partigiani dalla folta ardente schiera”. 300 persone circa a seguire la rotta dei liberatori, annusarne le tracce su per il Monte Blum e scansare i rigurgiti della Storia, quella nera che sembra un abisso calcolato nei quattro muri del cimitero di Rovetta, palcoscenico nostalgico per la commemorazione dei miliziani fucilati della Tagliamento. Le idee chiare fin dall’inizio e le facce limpide di normalità: “Nessuna provocazione, nessun contatto, il nostro obiettivo è smuovere una situazione incancrenita da anni. Siamo qui per andare sulla nostra strada a testimoniare”. Tina lo fa tutti i sacrosanti giorni, segno che l’insegnamento può essere ancora una vocazione: “Cerco di spiegare ai miei ragazzi che la verità è sì relativa ma va pesata con le giuste conoscenze, senza sfoderare discorsi precotti ma soprattutto senza livellare torti e ragioni. Due sponde che possono toccarsi e mischiarsi, sta alla singola conoscenza sbrogliare la matassa per riprendere il filo di quello che siamo stati e per non ripetere gli sbagli”. I primi passi portano sempre con sé un segreto so- lenne, per la salita si parte dalla Conca Verde, località di Rovetta, marcare la presenza per parare il colpo di quelli che stanno inneggiando dall’altra parte della barricata. “È sbagliato però utilizzare la definizione di ‘opposti estremismi’ – sento alle mie spalle – chi utilizza questa formula mette sullo stesso piano partigiani e fascisti”. Il fato inizia a farsi corto già dalle prime battute, i fatti di Rovetta bruciano ancora dopo anni ma i “Ribelli della montagna”, il gruppo di quindici persone che in questi mesi hanno alzato l’attenzione sul raduno dell’estrema destra, non vogliono gettare sale sulle ferite. Semplicemente informare ad oltranza perché “sulle strade dal nemico assediate lasciammo talvolta le carni straziate sentimmo l’ardore per la grande riscossa sentimmo l’amor per patria nostra” riecheggia la canzone a rimarcare il dolore delle scelte obbligate, quei muri ciechi che ogni tanto fanno sudare la coscienza mettendola alla prova. Dopo la prima ora di cammino inizia l’apnea, non c’è più spazio per i volteggi delle parole e il mio Sancio borbotta: “Io mi lamento perché è dura ma pensa le staffette partigiane che la facevano quasi tutti i giorni. È proprio vero, la nostra generazione non ha più il fisico” e neanche il ricordo… “Se siamo qui è perché la gente ha la memoria corta e si dimentica presto dei fatti storici – aveva spiegato Rossana, una dei Ribelli, in un incontro che ha preceduto di pochi giorni la camminata – da anni il nostro gruppo lavora a Rovetta per sensibilizzare le persone. In questi anni abbiamo fatto azioni di disturbo, nel 2009 siamo passati con l’elicottero sopra il cimitero nelle ore della commemorazione fascista. Abbiamo scritto lettere al Prefetto e alla Curia, da anni hanno il nostro materiale ma nessuno ha mai mosso un dito… Il nostro obbiettivo principale è informare e quest’anno siamo riusciti ad alzare bene l’attenzione dopo 20 anni di silenzio e di comprensione per i curiosi e i nostalgici che ogni anni si trovano per commemorare i morti della Tagliamento”. L’obiettivo è ben chiaro: “Informare, informare, informare” che sembra ricalcare il motto “Resistere, resistere, resistere!”. Dopo due ore si apre il monte Blum che sembra grattare il cielo con la sua chiesetta e un campanile come un indice a terra ad additare chissà quale vanità. Inevitabile lo sguardo verso il basso, a quel cimitero che sembra un puntino, una sbavatura mal sopportata. “Resistenza” si srotola sul crinale, lo striscione che porta con sé il carico di una sfida a timbrare la salita. Poi i messaggi tra cui quelli dei partigiani che infagottati dagli anni non hanno potuto presenziare, ma uno spicca limpido come l’aria, quello di Moni Ovadia: “Mi dispiace non condividere con voi fisicamente questa importantissima mobilitazione, l‘Italia è una delle nazioni Europee con più lunga storia democratica ma affetta da una grave malattia, molto grave forse la principale anche se non sembra. L’Italia ha ancora ancora nelle vene nelle fibre il male del fascismo annidato come quelle cellule cancerogene che non si riescono a debellare e che possono provocare metastasi. Per questa ragione abbiamo avuto le stragi, per questa ragione le stragi non sono state punite. Perché abbiamo queste cellule cancerogene? Perché l’Italia non ha voluto fare i conti con il fascismo, l’Italia si è autoassolta ha propagato la retorica degli italiani brava gente, retorica fradicia marcia e bugiarda. Il fascismo italiano fu un regime genocida, assassino, criminale, razzista e colonialista. Abbiamo bisogno di iniziare un cammino di denuncia di tutte le istituzioni che permettono a questi neofascisti di esprimersi impunemente. Come? Denunciandoli! Loro e chi gli dà i permessi. Vanno fermati e la loro cultura espunta dalla nostra società democratica. Voi siete l’avanguardia ma dobbiamo prendere coscienza che abbiamo un lungo lavoro da compiere, l’antifascismo non è una questione di destra o sinistra è qualcosa di più. È sinonimo di umanesimo, di democrazia e di libertà”. Scendiamo dalle vette di pensiero e fisiche prendendo la strada nodosa di casa. Quassù si ha la vertigine neanche troppo metaforica di avere ragione, ma ai posteri, che alla fine dovremmo essere già noi, è riservato il giudizio. Non c’è calma dopo la tempesta perché una turbolenza nella giornata non c’è mai stata, solo il senso di una ferita profonda da portare a spalle e del sangue che stilla sempre verso il basso.

    Quel mezzogiorno di fuoco (vero)

    Dei fatti di Rovetta fino a pochi anni fa i volumi di storia riferivano in poche righe, con evidente imbarazzo. E tra la gente non se ne parlava affatto, rimossi. Nel 1990 Araberara dedica due pagine a quella fucilazione a cessate il fuoco già proclamato e sottoscritto da tutte le formazioni partigiane la mattina del 28 aprile, alle ore 8.00 a Bergamo, con staffette partite verso le valli per avvisare tutti. Nel frattempo l’alta Valle Seriana è stata “liberata” da due nuclei militari molto numerosi e potenzialmente pericolosissimi: i russi, alleati dei tedeschi, alloggiati a centinaia in Seminario a Clusone e convinti a “disertare” da Don Giuseppe Bravi (1889-1979) parroco di Rovetta e parte attiva di una Brigata partigiana nata sul posto (mai riconosciuta). Si arrendono, sempre in via pacifca e ad opera della stessa Formazione rovettese, anche 47 militi della Tagliamento alloggiati alla Cantoniera della Presolana, convinti a consegnare le armi proprio a quelli di Rovetta. Don Bravi fa capire che questi due successi (diserzione dei Russi e la resa dei militi della Tagliamento) avevano suscitato invidia nelle tradizionali formazioni partigiane, indicando come una delle cause della fucilazione dei militi proprio il voler far capire chi comandava. Fatto sta che, disarmati, i militi sono “prigionieri” della locale Brigata rovettese. Ma la mattina del 28 aprile arrivano a Rovetta “gruppi di partigiani” come scrive nel suo rapporto al vescovo il parroco, prelevano i militi e ne fucilano 43 al muro del cimitero di Rovetta, concedendo a Don Bravi solo di confessarli (tre furono salvati perché giovanissimi e uno, Fernando Caciolo, perché riuscì a fuggire). L’elenco di chi ha sparato fu compilato dal Maresciallo Guerrini, comandante la Stazione dei Carabinieri di Clusone, incaricato delle indagini e inviato nel 1949 alla Pretura. Ma chi ordinò la strage? Le testimonianze raccolte dal Maresciallo si contraddicono. Aldilà di qualche testimonianza discordante (lasciata cadere), per anni si era individuato in un misterioso Mojcano il responsabile. C’erano le foto, ma in 60 anni non si era scoperta l’identità di chi era ritenuto responsabile di quella strage a guerra finita. Sparito nel nulla. Araberara nell’agosto 2006 scopre la sua identità, intervista la vedova. Ma prima ancora pubblica nel giugno di quell’anno la lettera inedita di Don Bravi in cui si ricostruiscono i fatti. Nei numeri successivi abbiamo pubblicato i verbali del rapporto Guerrini, nuove testimonianze inedite e la testimonianza di Don Bravi davanti al Pretore: è il documento che ribalta la versione del Moicano come mandante e comandante (già traballante per il suo ruolo senza alcuna autorità nei confronti dei Comandanti delle Brigate). Don Bravi scrive che per ben due volte “l’uffciale alleato di collegamento” (appunto il Mojcano: Paolo Poduje) “è venuto a dirmi e mi ripetè che non c’entrava per niente in quanto stava avvenendo” (Araberara 20 ottobre 2006 pag. 2). A sparare furono “cinque o sei partigiani parte di Clusone e parte di Lovere”, della Brigata Gabriele Camozzi e della Garibaldi quindi. Da quest’ultima i partigiani che spararono erano stati già espulsi. Chi dunque diede loro l’ordine? Ancora il parroco: “Non so chi abbia dato l’ordine di fucilazione” e subito scagiona davanti al Pretore proprio il Mojcano, come detto sopra. Com’è stato possibile allora che in tutte le ricerche storiche gli fosse (al Mojcano) attribuita in esclusiva tale responsabilità? Come poteva comandare partigiani in forza a Brigate che lui non comandava? Araberara scopre che ha un ruolo, anche successivo, nei Servizi segreti inglesi. Nei mesi successivi al nostro giornale arrivarono altre testimonianze, ma non dirette (racconti fatti da propri famigliari prima di morire), per cui non furono mai pubblicate.

    Nando Caciolo, l’unico sopravvissuto, ai giovani: “Non mi interessa se siete fascisti o comunisti, siate italiani”

    Rovetta, 10 di una domenica mattina, domenica 27 maggio. Si sono dati appuntamento qui. Nostalgici? Di gente ce n’è veramente tanta nei dintorni del cimitero, in buona parte giovani, come giovani, anzi giovanissimi erano i 43 ragazzi della Legione Tagliamento fucilati dai partigiani il 28 aprile 1945. La data è importante, è la vera ragione del contendere, la “resa” era stata firmata. I ragazzi della Tagliamento si erano arresi pensando o sperando di essere trattati da prigionieri di guerra, ma vengono fucilati al muro del cimitero. 67 anni dopo, a ricordare e onorare questi caduti, tutti di età compresa tra i 15 e i 22 anni, ci sono ragazzi che hanno la loro stessa età al momento della fucilazione. Un ragazzo robusto, palestrato, avrà poco più di 20 anni, mi dice che è la prima volta che viene, “i miei genitori me l’avevano sconsigliato, ma ho voluto venire lo stesso. Che bello! Non immaginavo che ci fosse tanta gente. Perché sono qui? Perché voglio ricordare quei 43 giovani uccisi dai partigiani senza motivo, solo per odio. La guerra era già finita”. Un altro ragazzo lì vicino ci tiene a dirlo, “siamo ragazzi normali, come gli altri, abbiamo i nostri valori e se qualcuno mi guarda storto per questo, non me ne frega niente. Loro hanno le loro idee, io ho le mie”. Lui c’era già stato qui a Rovetta, “questa è la seconda volta, ma verrò sempre, lo dobbiamo a quelli che sono stati assassinati qui. Quest’anno ci sono molte più persone dell’anno scorso”. Più in là, accanto ai numerosi tricolori con al centro l’aquila che tiene tra gli artigli il fascio littorio, ci sono altri giovanissimi, saranno una ventina, capelli corti o rasati, tutti ben piazzati. C’è anche qualche ragazza. Sulla strada che conduce al cimitero ci sono vari gruppetti di 4/5 persone, tra i trenta e i quarant’anni. Sì, non si parla solo della strage di Rovetta, ma anche di argomenti più leggeri, degli scudetti vinti dalla Juve, uno dice che sono 30 (sarà juventino come me) altri due rispondono che sono 28 (saranno interisti o milanisti). Discorsi normali. C’era una certa attesa, perfno un po’ di paura. Paura che ci fossero scontri con l’altra manifestazione. Non ho visto svastiche. Gente incazzata sì, ma oggi chi non è incazzato? I bersagli però non sono i partigiani o i comunisti, no, stavolta le invettive sono rivolte ai politici di destra e di sinistra, “sono tutti ladri, a Roma, a Milano e in Europa, rubano e se ne fregano dei poveri cristi come noi”, tuona un uomo di mezza età. Un altro ce l’ha con i tecnici al governo, “fanno gli interessi dei poteri forti, delle banche e noi qui a pagare”. Un altro anziano dice a un coetaneo ciò che in fondo molti dicono nei bar della Penisola. “Bisognerebbe dare un calcio nel culo a tutti i politici e rivoltare l’Italia come un calzino. L’è ura de fnila”. Capace che se si parlassero su questo si troverebbero d’accordo con i “ribelli della montagna” che stanno già sui sentieri, ormai lontani da qui. Un signore distinto spiega ad altri due le conquiste sociali ottenute grazie a Mussolini, come le pensioni. Una mia vecchia prozia faceva dire la Messa in suffragio dell’anima del Duce, perché grazie a lui aveva avuto la pensione. Vecchi discorsi, la storia non è solo rosso e nero, ma ha anche molto grigio. Ricordo una vecchietta che mi diceva “tu sei giovane, ma io queste cose le ho vissute. Di persone cattive ce n’erano tra i fascisti ma anche tra i partigiani”. Altro bersaglio dei “neri” è la Chiesa. Parlano di Ior, di Marcinkus, dei preti pedofili, dei corvi presenti in Vaticano. Un signore attempato, che frequenta regolarmente la Messa tridentina, commenta gli scandali che stanno “insozzando” la Chiesa nata dall’odiato… Concilio Vaticano II, “guarda dove si va a finire, hanno abbandonato la tradizione e ora pensano solo ai soldi e al potere”. Poi si torna ai fatti per cui sono arrivati fin qui: Un anziano ricorda le parole di un sindaco di Rovetta, “aveva condannato l’eccidio del ’45, perché la guerra era finita e si era trattato solo di una vendetta sanguinaria”. C’è sempre più gente. Ci sono due arzilli vecchietti con al collo un fazzoletto nero, devono essere due reduci della Legione Tagliamento. “Sì” conferma un giovane “uno viene dalla Toscana, l’altro non lo conosco, ma l’ho visto anche qualche anno fa. Se vai là in fondo potrai vedere il Nando. L’unico rimasto tra quelli di Rovetta. Si era salvato buttandosi dalla finestra”. Fernando Caciolo, 83 anni, è la star di questa domenica di tarda primavera, lui che avrebbe dovuto morire con i suoi commilitoni molti anni fa. E’ circondato da una decina di persone, quasi tutti giovani e sta raccontando per l’ennesima volta come andarono le cose. “Non volevo arrendermi perché ero sicuro che ci avrebbero uccisi, non mi fidavo e così, con la scusa di andare al gabinetto, mi sono buttato dalla finestra e sono scappato. In lontananza sentivo i colpi di mitra e capivo che i miei amici stavano morendo. Non lo dimenticherò mai”. Il vecchio Nando sembra più giovane della sua età e lo spirito sembra ancora quello di quando era un giovanissimo legionario. Ce l’ha soprattutto con il piccolo re Vittorio Emanuele III, quello che invece di rimanere a Roma a guidare il paese ha preferito fuggire accompagnato dalla corte e dal governo, “se invece fosse andato insieme a Mussolini da Hitler a dirgli che per noi la guerra era finita, non rompesse più i coglioni perché non potevamo più andare avanti. Così non ci sarebbe stata la guerra civile tra italiani, tra fratelli, saremmo stati tutti italiani e non fascisti e antifascisti. Io avevo 15 anni, vedevo l’Italia distrutta, divisa e soffrivo per questo. Mi sono arruolato perché volevo difendere l’indipendenza del mio paese. Avevamo iniziato la guerra al fianco dei tedeschi e mi sembrava sbagliato tradirli e passare dall’altra parte. Ero un ragazzino, mi era stato insegnato che bisognava difendere la patria e per me la patria era quella. Non volevano neanche arruolarmi perché ero troppo giovane, mi chiamavano ‘bambino’. L’altro ragazzo che era con me, aveva pochi anni più di me, ha poi detto che o arruolavano entrambi o nessuno. Così sono entrato nella Tagliamento”. Ma ecco entrare in scena l’altro peso massimo della giornata, padre Giulio Tam, un prete tradizionalista legato al movimento lefebvriano. Un prete con la tonaca, questo me lo fa notare una signora, “lui è un prete e si veste come un prete. Non come quei preti che non sembrano neanche preti”. Padre Tam guida la processione, si va verso la lapide che ricorda i 43, si depongono le corone e si fa l’appello, la folla urla “presente!”, in molti alzano il braccio nel saluto romano. Inizia poi la Messa tridentina, rigorosamente in latino. Diversi giovani preferiscono rimanere fuori, di fronte alla lapide, ad ascoltare il vecchio Nando. “E’ da sessant’anni che non vado a votare. Votare chi? Chi merita di essere votato?”. Ricorda poi come molti che a suo tempo erano fascisti, quando il vento è girato, sono diventati di colpo antifascisti “e sono andati a riempire il Parlamento”. Rientro nel cimitero e il celebrante inizia la predica. Ricorda che i 43 legionari sono morti per difendere l’Italia, un’Italia cristiana, che la massoneria vuole distruggere. Parla di Mussolini, che Pio XI definiva ‘l’uomo che la Provvidenza ci ha fatto incontrare’, del matrimonio omosessuale, della nascita dello Stato di Israele, dell’immigrazione. Dio Patria e Famiglia. Tranquillizza tutti dicendo che “alla fine Dio vincerà, la Madonna vincerà, la nostra mitragliatrice ha 50 colpi, è il Rosario, recitatelo tutti i giorni”. Alla fine della Messa consegna ai presenti un libretto. Un libro fascista, immagino. Macché, è il trattato della vera devozione alla Madonna di San Luigi Maria Grignioni de Montfort. Nando, appena fuori dal cimitero, sul viale dove l’allora parroco di Rovetta Don Bravi confessava i condannati a morte, sta ancora parlando, attorniato da molti giovani, potrebbero essere i suoi nipoti o pronipoti. Parla dell’Italia, degli italiani, “non mi interessa se siete fascisti, comunisti o altro ancora. Vi chiedo solo di essere italiani”. Un’anziana lo chiama, “Nando è ora di andare”. Dice lui “un momento non vedi quanti giovani? Gli devo raccontare ciò che è successo”. Qualche foto: quattro giovani mi chiedono spiegazioni, sanno di essere controllati, questa mattina c’è uno spiegamento di Forze dell’Ordine. Torno indietro e incontro Nando che sta parlando con due persone. Gli chiedo se posso fargli una foto in primo piano da pubblicare su un giornale locale. “Va bene, Dio mi ha tenuto in vita per testimoniare. Gli altri 43 non hanno potuto farlo. E io continuerò a fare da testimone e resterò sempre un uomo libero”. Un altro anziano è contento perché “stavolta eravamo più numerosi del solito. Anche i giovani erano tanti, anche loro sono venuti a ricordare i nostri martiri”. Torno a casa, mi chiedono se ho avuto paura, se ci sono stati problemi. No, nessun problema, di diavoli non ne ho visti neanche oggi. In compenso, al telegiornale, si parla dei corvi del Vaticano, di Emanuela Orlandi, di scandali e crisi economica. No, se il diavolo c’è, domenica non era a Rovetta.

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