Cadono giù come palle di neve che si gonfiano di altra neve mentre saltano su crepacci e vallate, oppure arrivano in cima appesi a corde e braccia che diventano tenaglie e che non mollano il mondo, nemmeno per un secondo. Di alpinismo si muore e si vive da sempre, ma negli ultimi anni e soprattutto nelle ultime estati le cronache nere fanno incetta di notizie, i morti sono aumentati così come l’alpinismo è diventato uno sport praticatissimo. Uno sport dove se sbagli muori. Se chiedi a un alpinista perché vuole arrivare lassù, dove ormai sono già arrivati, che di cime inviolate non ne restano praticamente più, lui ti dice che la passione spinge più di qualsiasi altra cosa, poi magari butta un occhio sulla foto sul comodino dove in pochi centimetri quadrati ci stanno dentro moglie e fi gli e rimane zitto. Perché in fondo è così, ci sono cose che non si spiegano, si fanno o non si fanno, e se cominci a chiedertelo non lo fai più. I nomi stanno dappertutto, associati a lapidi o fi ori o a vette alpine, sono gli alpinisti che hanno fatto la montagna e non più viceversa, perché in fondo l’hanno aperta, fotografata, calpestata, respirata, in fondo sembra quasi che ce l’abbiano resa accessibile a tutti, salvo poi magari scoprire all’improvviso che così accessibile poi non lo è. Un viaggio su un 8000 percorso assieme a Roby Piantoni da Colere e di Colere, che si è portato dietro il computer e ogni sera dentro la sua tenda scriveva e raccontava, come fosse il suo appiglio col mondo e con la sua gente, una tastiera, rumori di parole e magari un po’ di caldo dentro. Roby è un giovane alpinista con addosso ancora il ricordo di papà. Che se ne andò sul Pukajirka un sacco di anni fa, nel 1981, quando Roby aveva appena 4 anni, e Roby da allora è come quei cow boy che non dimenticano e che prima o poi ritornano sulla montagna e la conquistano per farle vedere che in fondo papà Livio aveva ragione, che le passioni possono tutto, vanno oltre e coprono vita e morte, altrimenti smettono di essere passioni e diventano lavori e basta.
IL SEGNO DELLA CROCE Roby da qualche giorno è tornato da un 8000 metri, uno dei più difficili al mondo, dopo essere arrivato sull’Everest lo scorso anno. Una salita che cambia anche il volto, spacca e riempie. “Ecco finalmente il report! Abbiamo avuto alcuni problemi al campo base con il nostro generatore e non ci era possibile ricaricare il Computer. Ora io e Marco (Marco Astori alpinista di Dossena – n.d.r.) siamo a Skardu, e in un internet point stiamo aggiornando i nostri siti. La cima dell’Hidden Peak è stata per quanto mi riguarda senza dubbio la cima di 8000m più impegnativa che ho salito, per come l’abbiamo salita (in stile alpino) e per come l’abbiamo trovata, ancora con molta neve. Io e Marco siamo anche stati i primi della stagione ad arrivare in cima. Comunque sia la scalata non è stata sicuramente tanto impegnativa Roby Piantoni: “Per la prima volta, prima di scendere, mi sono fatto… il segno della croce” come la nostra ‘ritirata’ dai 7300m della cresta est! La meteo sembrava inizialmente darci una mano ma un improvviso cambiamento ci ha dato davvero del fi lo da torcere… Il pomeriggio del 17 giugno siamo arrivati a 7300m di quota sulla cresta est, e nonostante stanchezza, zaini e neve a volte molto alta, siamo saliti di circa 1000m di dislivello e circa alle 15.00 siamo riusciti a piazzare in qualche maniera in pieno pendio la nostra tenda, appesa a 3 chiodi a fessura. Dovevamo passare la notte seduti dentro, in uno spazio molto ridotto. Alle 18.00 però il vento era insopportabile, eravamo in piena bufera, che ci stava maltrattando. Abbiamo quindi deciso di scendere un po’, verso un colle a circa 7000m, dove avremmo potuto quantomeno piazzare la tenda su un piano. Il vento non ci ha mai mollato, nemmeno per 2 secondi. La notte insonne. La mattina eravamo molto preoccupati, non si vedeva a un metro, nevicava ed il vento era costante, forte. Sapevamo solo che verso valle doveva esserci un vallone, molto ripido e con ai lati dei seracchi. Dovevamo sperare di ‘centrare’ questo vallone, alla cieca… E’ stata la prima volta che prima di partire a scendere mi sono fatto il segno della croce. Abbiamo fatto 3 o 4 calate in corda doppia con la corda da 5 mm di diametro, nel vuoto, sopra dei seracchi, e poi finalmente siamo capitati nel vallone, molto ripido, ma più sicuro. Dopo un po’ di ore, ma non sappiamo nemmeno quante, il terreno si spiana: siamo sul colle del Gasherbrum. Là, a 6400m, dove avevamo dormito per 2 notti. Sul colle c’è una tenda, quando la vediamo capiamo che è quella dei francesi, ma quando ci avviciniamo c’è solo un alpinista a salutarci ed accoglierci. E’ un’accoglienza fredda, ha gli occhi sbarrati, increduli, delusi e subito capiamo perchè: il suo amico è caduto per sempre in un crepaccio, poco distante dalla tenda, da qualche ora. Una bruttissima notizia. Lui è confuso, non sa cosa fare. Lo invitiamo a legarsi nella nostra corda e di scendere verso il base con noi. Prima però passiamo a vedere il crepaccio dove qualche ora prima ha visto sparire il suo amico, il suo compagno di tante spedizioni. Un buco netto nel ghiacciaio, largo un metro e profondo non si sa quanto, era prima ricoperto da uno strato di neve, come una trappola invisibile. Su un lato c’erano ancora dei segni, probabilmente di picozza. Un disperato tentativo di rimanere agganciato al bordo del crepaccio, ma poi un volo nel vuoto profondo. Il suo amico adesso è qui con noi, Nicolas, è in ginocchio sul bordo, è appoggiato sulle braccia e si sporge un po’ per guardare dentro quel nero, le sue braccia sono piegate, quasi a non riuscire a sostenere il peso di ciò che è successo. Senza discutere, senza parlare, senza aver appreso ancora al 100% quel che è successo, Nicolas s’incammina con noi, verso il campo base, un compagno di cordata silenzioso. Adesso, nostro amico. Rimane superfluo parlare della nostra cima, dell’Hidden Peak, salito in stile alpino, è superfluo parlare della salita e del nostro progetto iniziale, il concatenamento. E’ stato importante per noi provarci ancora una volta, e stavolta la cresta est sembrava a portata di mano, ma quello che abbiamo vissuto là sopra mi ha fatto promettere a me stesso che una volta giunti al base sani e salvi, per noi quest’anno era sufficiente, non avrei più ritentato il GII, perchè ne avevamo abbastanza. La quota ti rovina i polmoni, i reni, il fegato. Adesso voglio ‘riaggiustarmi’, voglio mettermi apposto. A fi ne spedizione si pensa sempre a cosa si e’ NON PIÙ GRANDI, SOLO PIÙ IN ALTO fatto e come lo si è fatto. Mi piace il nostro stile, uno stile pulito e senza compromessi, così ci piace. Prima di lasciare il campo base, parecchie spedizioni erano arrivate, i Gasherbrum si stavano popolando di alpinisti e portatori. Si sentiva parlare e discutere riguardo all’organizzazione a campo base di un meeting, di una riunione alla quale tutti gli alpinisti presenti alla base dovevano partecipare, per decidere chi doveva portare in alto le corde fisse, chi doveva metterle lungo la salita e chi altre mansioni. Bene, noi a questa riunione non partecipiamo. Noi abbiamo fatto e deciso in due. A noi ci sono piaciuti i Gasherbrum ‘al naturale’. Noi abbiamo salito l’Hidden Peak come ci piace fare. Abbiamo vissuto la nostra spedizione, adesso i Gasherbrums… sono diversi, un’altra faccia per un altro tipo di alpinisti… A Presto e grazie Mille! Roby & Marco”. Siamo nel trekking di rientro. Tra 3 giorni saremo a Skardu, là speriamo di riuscire a caricare il PC e mandare foto e report. Sento ancora la stanchezza. Tutto bene oggi qui al campo base, a parte faccia e lingua ustionate. Abbiamo problemi di ricarica PC. Aspettatevi report e foto della salita tra qualche giorno… Abbiamo abbandonato il progetto a 7300m della cresta est. Venti fortissimi, neve, freddo e visibilità zero. Oggi un inferno: 14 ore per scendere al campo base. Siamo a 7200m sulla cresta est. Il tempo non mi piace… vediamo… Siamo al Gashgerbrum La al campo2 6400m. Riposiamo, mangiamo e beviamo. Il tempo così, così… Cima dell’HIDDEN PEAK alle 11 ora locale. Siamo al campo 3. Ancora neve molto alta lungo il coloire dei giapponesi. Come l’anno scorso 6 ore di marcia per 600m di dislivello, vedremo domani. Ieri io e Marco siamo saliti a quasi 6000m per allestire quello che sarà il nostro punto di partenza per il tentativo. Pensavamo di trovare tracce del passaggio della spedizione Slovacca nella seraccata, ma loro hanno preferito salire totalmente più a destra, dove a noi non piace assolutamente. Allora abbiamo ripercorso più o meno la salita dell’anno scorso trovando in alcuni punti il ghiacciaio totalmente mutato. A circa 5400m la nostra traccia incontra quella dell’altra spedizione. A 6000m abbiamo finalmente incontrato i membri dell’altra spedizione e fatto (…una piccola) conoscenza. Sono forti, hanno salito in questi giorni il GII in stile alpino e dalla cresta francese, che sale al centro dell’enorme pendio che scende dal GII. Abbiamo dormito nelle baracche di sassi dei Baltì nel trekking di rientro, fatte di sassi e terra, con soffitto di tronchi e pavimento ricoperto da un morbido strato di sterco secco di mucca molto confortevole. Siamo stati ospitati a mangiare a casa di una guida locale di Arando. La casa ha solo una stanza rifinita a muro di pietre, le altre hanno muri di rami intrecciati e fango. Le porte sono stracci appesi ai lati e il bagno ha un buco al centro dove fare tutti i bisogni. Le altre stanze della casa sono la cucina, senza tavolo o elettrodomestici, e le ‘camere degli animali’, galline capre, mucche. Mentre mangiavamo sono entrati nella stanza una decina di pulcini, e il padrone di casa li ha gentilmente riaccompagnati nella loro ‘camera’. Non abbiamo potuto ne vedere ne conoscere la moglie della nostra guida. Le donne non si fanno vedere. In questa casa vivono 2 famiglie, quella di Fida, la guida, e quella di suo fratello ed hanno rispettivamente 4 e 7 fi gli. Abitano tutti assieme. Al centro del pavimento c’è una botola che accede al piano interrato, buio. Fida mi dice: ‘lì sotto è dove passiamo l’inverno, assieme agli animali. C’è più caldo’. Ad Arando, a 2800m circa, in inverno vengono circa 2-3 m di neve, ma ad aprile non c’è già”. Il racconto buttato su un computer mentre sei più vicino al cielo che alla terra finisce qui.