(Dal numero del 5 gennaio 2024)
di Luca Mariani
«È stata una sorpresa. Mi hanno trattato da signore. Un’accoglienza e un sorriso brillante. Sembrava un sogno».
I due occhi azzurri di Gianni Salvoldi brillano di gioia. Il 10 novembre è stato premiato alla Casa del Giovane di Bergamo dal Collegio dei maestri di sci della Lombardia come maestro
più longevo d’Italia. Il 6 dicembre, poi, il presidente del consiglio regionale Federico Romani
ha consegnato al maestro di sci più anziano d’Italia la medaglia di Bergamo in bronzo, una pergamena e il catalogo del 60° di Palazzo Pirelli. «Ironia della sorte io vecchio sono stato
premiato alla Casa del Giovane. Sia qui a Bergamo che a Milano ho passato dei momenti tra i più belli della mia vita. Mi hanno dato dieci anni di vita. Perciò non posso morire subito, non posso restare a credito».
Gianni Salvoldi ha 91 anni e ha ancora tanta voglia di stare in compagnia a ridere e fare battute. Anche l’emozione per il doppio riconoscimento è espressa con il sorriso intelligente dell’autoironia: «Sono due notti che non dormo più perché penso: “Gianni, ma quanto sei vecchio!” Lo sapevo di essere vecchio ma non ci pensavo. Adesso mi guardo allo specchio e
ci penso. Sono contentissimo anche se avrei preferito essere il più giovane. Non faccio pubblicità che sono il più vecchio».
L’immancabile cappello nero copre i capelli bianchi tagliati corti. È domenica sera. Gianni è entusiasta e ha tanta voglia di raccontarsi: «Stamattina non stavo troppo bene, avevo un po’ di febbre. Però sono andato lo stesso a sciare e mi sono trovato da Dio. È stato come accendere la luce. Mi sono sentito come una volta. Mi sono proprio divertito».
Proprio il divertimento è il segreto di Gianni e della sua passione che lo accompagna da tutta la vita. Dalla fine degli anni Trenta quando sui prati pendenti e innevati di Premolo mette per la prima volta ai piedi degli sci: «Mio papà faceva il contadino. Abitavamo in una cascina. Ho cominciato a sciare a sette anni con un paio di legni fatti a barchetta e con il filo di ferro che mettevo sulla punta dello scarpone. Era bello venire giù, nonostante i geloni da tutte le parti perché avevamo i calzoni e il ginocchio era libero».
Tra il freddo e le risate con gli amici il piccolo Gianni capisce di avere un talento per questo sport: «Nel gruppo io ero il più bravo. Cadevo solo due volte per discesa, gli altri molto di più». Sono gli anni del fascismo e della II guerra mondiale. Lui chierichetto di don Antonio Seghezzi continua a sciare nonostante gli aerei degli Alleati che sorvolano le vette orobiche,
dimenticandosi spesso anche di studiare: «A Premolo c’era solo la quarta elementare. L’ultimo trimestre ero insufficiente. Allora mio papà ha portato una formaggella alla maestra. Solo così sono diventato sufficiente e sono stato promosso».
La risata sincera e contagiosa accompagna i ricordi di Gianni, in questo viaggio interessante e simpatico nella sua vita lunga quasi un secolo, quando gli inverni erano freddi e lunghi, la neve non mancava mai e lo sci era un mezzo di trasporto divertente più che uno sport per benestanti: «Non c’erano impianti di risalita. Non c’era niente. Bisognava tornare su a piedi».
Terminati più o meno egregiamente gli studi Gianni si inserisce direttamente nel mondo del lavoro. Prima contadino con il padre. Poi falegname con il cugino tornato dall’America.
«Io facevo l’apprendista», commenta Gianni con modestia. L’esperienza lavorativa si interrompe ad inizio anni Cinquanta. Il ragazzo è chiamato alla leva. È alpino e anche con
la penna nera sul cappello continua a coltivare la passione per lo sci. Proprio nei 14 mesi di
naja inizia la sua carriera come insegnante: «D’inverno facevo il corso ghiaccio. Siccome ero il più bravo degli asini facevo l’istruttore. Così nel 1953 ho cominciato come collaboratore-maestro».
Buona parte dell’anno e due mesi di servizio di leva Gianni li passa in una Madonna di Campiglio molto diversa da quella di oggi: «Prima erano solo montagne. Non c’era niente: c’era solo la chiesetta, l’albergo Bellavista e la seggiovia monoposto. Poi c’erano i chioschi dove vendevano cartoline, medagliette e souvenir. Se dovessi andare su adesso non troverei nemmeno più dove ero».
Il ritorno alla vita civile segna l’inizio di un nuovo lavoro: il carpentiere e poi l’operaio chimico a Ponte Nossa. Qui Gianni scopre la cura a tutti i suoi acciacchi e infortuni da neve:
la tintura di iodio. «Quando lo racconto la gente mi guarda sorpresa e mi ride dietro. Loro non ci crederanno ma io ci credo, perché l’ho provato».
Il sorriso largo e spontaneo gli riempie il viso abbronzato ad ogni aneddoto del suo passato che ondeggia tra il comico e il reale. Gianni lavora come chimico, si sposa ma continua a sciare e l’attrezzatura diventa sempre più costosa. Così decide di intraprendere la carriera da maestro: «Gli sci belli li vedevo in negozio: erano un miraggio. Ho voluto fare il maestro perché al tempo le ditte ti davano tutto il materiale. Io non riuscivo a comprare granché perché avevo famiglia, una figlia e una casa da pagare».
Così nell’inverno del 1967 Gianni diventa allievo maestro al monte Pora, però «quando sono diventato maestro io le ditte hanno iniziato a fare pagare tutto. Almeno facendo scuola portavo a casa qualcosina che mi permetteva di comprarmi il necessario».
Sono gli anni in cui il monte Pora sta diventando un polo sciistico e stanno nascendo gli
impianti di risalita. Gianni ha seguito e accompagnato questo sviluppo dalla sua nascita ad oggi. Quasi sessant’anni dopo l’ometto dalle mani larghe e dagli occhi color del cielo è ancora un maestro della Scuola italiana sci del monte Pora. «Quando mi sveglio il
mattino faccio colazione e mi vesto con calma. C’è il direttore della scuola che mi tratta da signore. Faccio la scala mobile, prendo la seggiovia, faccio i controlli, vedo come è la neve e faccio la pista del boschetto. Se mi sento bene vado alla scuola e dico che se hanno bisogno sono disponibile. Chiedo solo di darmi degli allievi che se cadono riescono ad alzarsi da soli. Io avendo fatto le anche per rialzarmi devo togliere gli sci. Quindi se c’è la neve molle riesco, se è ghiacciata ho difficoltà».
In quasi sei decenni di onorata carriera Gianni ha insegnato a sciare a tantissimi bimbi e molte persone. Ma l’allievo che più gli ha dato soddisfazione è il nipote Nicolò, che ha ereditato la passione del nonno: oggi è istruttore di sci e allena i giovani dello sci club Goggi. «A un anno e dieci mesi l’ho portato in cima Pora. Ho iniziato in casa e lo facevo camminare intorno al tavolo con gli sci ai piedi. Poi un giorno ho deciso di portarlo a sciare con me, in mezzo alle mie gambe lì in Pora. Prendo lo skilift, vado avanti e non c’è più, mi è scivolato indietro. Nonostante questo inconveniente poi è stato bravissimo. È sempre stato in mezzo alle gambe, finché è partito da solo. A due anni e tre mesi faceva già la pista del boschetto da solo».
Oltre a Nicolò, Gianni ha un’altra nipote: Elisabetta, la moglie e due figlie: Mary e Debora. Loro sono la sua famiglia. Ma in questo quasi secolo di vita il maestro di sci che vive a Clusone ha incontrato e conosciuto tantissime persone che con lui hanno scambiato una battuta e fatto una ristata. Non solo sulle piste da sci, perché negli anni Sessanta Gianni scopre e si appassiona anche al tennis. Anche di questo sport è istruttore di II grado, però «ho guardato sul sito della Federazione Italiana Tennis dove ci sono tutti i maestri attivi, prima c’ero, adesso non ci sono più. Forse pensano che sia morto». Scherza l’atleta plurinovantenne. Che poi racconta: «Prima della pandemia eravamo quattro amici e tre volte a settimana andavamo a giocare a tennis. Ma adesso purtroppo uno è morto, uno ha fatto un infarto e l’altro non sta più in piedi».
Lo sport come compagno inseparabile di questo lungo viaggio a cavallo dell’anno 2000. E proprio questa voglia di sciare, giocare e non smettere di divertirsi è quella che ha salvato la vita a Gianni. È il 1 gennaio 2009. Mentre scia in Pora gli fuoriesce l’anca.
Nonostante l’infortunio e il parere contrario dei medici il maestro clusonese qualche settimana più tardi rimette gli sci ai piedi. «Allora ho preso una fascia grande, me la sono messa all’altezza delle anche e mi sentivo abbastanza bene. Questa mi stringeva e da lì ho avuto disturbi di dissenteria che sono andati avanti un mese. Ho fatto i vari esami e hanno scoperto che avevo un cancro al colon. Se non mi fosse uscita l’anca e non avessi messo la fascia non avrei sentito niente e il cancro sarebbe andato in metastasi. Se io non avessi avuto la voglia di andare ancora a sciare adesso sarei già morto. La fascia, anzi lo sci mi ha
salvato la vita».
91 anni giocati tra neve, racchette, lamine e scarponi, sempre con il sorriso a illuminare le giornate e mai con lo spirito competitivo di chi vuole primeggiare: «Ho fatto delle gare, ma da schiappa. Se avessi girato la classifica sarei stato nei primi». Tra queste poche sfide
contro il cronometro una è ben salda nei ricordi di Gianni: «Era una discesa libera a Foppolo. Allora le piste non erano battute e c’erano delle buche enormi. Si partiva su una mezza costa, poi due curve ad esse, poi si andava giù dritto per duecento metri: quante Ave Maria ho recitato in quel pezzo! Eravamo in più di cento e solo in tre sono riusciti a rimanere in piedi».
Avvolto in una giacca a vento scura, il fisico quadrato e compatto di Gianni è ancora vivace e arzillo. Il maestro di sci però è consapevole che «alla mia età non si possono fare tanti progetti». Così gli occhi azzurri si stringono e brillano di saggia speranza: «La vita è una lotteria.
Io sogno solo di stare bene e andare avanti così più che posso». Forse il maestro di sci più anziano d’Italia ha trovato i numeri giusti per giocare a questa lotteria che si chiama vita: la voglia di ridere, la passione per lo sport e la capacità di prendersi in giro.