“Sono sempre stato un prete, anche negli affari economici”. E come lo si riconosce un prete, anche quando si occupa di alta finanza? “Dal modo di amministrare e usare i beni economici, non a scopo di lucro speculativo, ma caritativo, quindi facendo prevalere la carità, la generosità, la bontà, accanto anche alla giustizia”. Mons. Aldo Nicoli ha il cancro, lo racconta senza giri di parole. Ma il cancro vero è quell’appellativo che gli hanno appioppato, il Marcinkus bergamasco. “E’ l’offesa più grande che possono farmi”. Lei ha maneggiato molto denaro: come lo considera? “Un mezzo, guai se ci si attacca”. E’ ricco? “Di famiglia stiamo bene, non certo di mio. E alla mia famiglia ho sempre chiesto”. Occupandosi di “affari”, avevano addirittura progettato di ucciderla: “Sì, erano i primi anni ottanta. Avevo scoperto un giro di malaffare, una piccola mafia che faceva il bello e il cattivo tempo. Era una cellula molto forte di imbroglioni. Succhiava il sangue un po’ a tutti, non solo alla Curia”. Perché se la sono presa con lei? “Perché ho scoperto io il giro. Un giorno il cappellano del carcere, don Vitale, mi avvisa, dicendomi: guarda che ho avuto una soffiata, ti vogliono far fuori con un incidente stradale perché hai scoperto il giro… E mi dice anche chi. Mi è testimone don Tarcisio Ferrari (ex segretario del Vescovo Gaddi). Per un mese ho viaggiato con una tremenda paura e quando tornavo a casa mi barricavo, chiudevo porte e finestre. Pochi giorni dopo mi arriva la notizia: quello che voleva ucciderti è morto in un incidente stradale”. Che abbia dato fastidio a qualcuno, Don Aldo, lo ammette. E adesso che i medici dicono che non guarirà da quel tumore al fegato, ha deciso di morire a Nembro, nella sua parrocchia, come un “pastore d’anime” e non come un “prete degli affari”. La malattia lo costringe a un calvario giornaliero, cure dolorose, lunghe, anche se ti lasciano intatta la faccia. “Me lo dicono anche i medici: impossibile che queste cartelle cliniche corrispondano al suo aspetto”. Un’altra leggenda, quella di un prete fi n troppo moderno: sport, macchine di lusso, forse donne (“No, di donne grazie a Dio non si è mai parlato, di me hanno detto di tutto, ma almeno di questo non mi hanno mai accusato”). “Banchiere di Dio” questo monsignore che fa stracciare un accordo già raggiunto tra il Credito Bergamasco (“Un gioiello di Banca, l’unica restata davvero bergamasca”) e la Banca Popolare di Novara, indirizzando verso un accordo con il Crédit Lyonnais (“Meglio avere un socio lontano che uno troppo vicino”). Aldo Nicoli nasce il 2 ottobre 1934 a Gaverina, un paese famoso per le sue fonti: “Ai miei tempi Gaverina aveva 1400 abitanti, adesso, dopo la chiusura delle fonti, è sceso a 900 anime. Resta l’impianto di imbottigliamento, ma il paese è morto. Quando io ero ragazzo, Gaverina era più famosa di Boario. Mia madre gestiva un ristorante, mio padre era a capo dell’azienda di famiglia, commercio di frutta all’ingrosso, io ero il primo di otto fratelli. C’era come parroco, Don Giacomo Falconi, che è rimasto a Gaverina per 41 anni, un sant’uomo, di grande cultura, ne sapeva sui Padri della Chiesa più dei professori del Seminario. E’ lui che mi ha indirizzato in Seminario e mi ha accompagnato fi no alla ordina zione sacerdotale”. E che prete voleva diventare? “Un prete, direttore di oratorio, insegnante e pastore di anime.. La mia prima destinazione fu a Comenduno di Albino, vicino a casa, scelta insolita, di solito a quei tempi ti destinavano il più lontano possibile da casa; la scelta di Comenduno era motivata dal fatto che pochi mesi prima era morto mio padre a soli 53 anni, lasciando una famiglia numerosa con bambini piccoli. Io ero il maggiore di 8 fratelli e dovevo occuparmi dell’azienda di famiglia; ecco perchè appena diventato prete (27 maggio 1961) fui destinato a Comenduno, dove sono rimasto fi no al 1968”. “A fi ne giugno 1968 mi chiama il Vescovo e mi dice: tu devi fare l’economo del nuovo Seminario”. Cosa è saltato in mente al Vescovo Clemente Gaddi di scegliere proprio lei? Si vede che aveva curato bene l’azienda di famiglia… “Non lo so di preciso. Fatto sta che quando ero in teologia tra compagni di scuola si giocava a fare le… destinazioni, tu diventerai questo, tu quest’altro. A me avevano pronosticato che sarei diventato l’economo del seminario. Si vede che ce l’avevo nel sangue. Anche il mio parroco, nella relazione del passaggio dal liceo alla teologia aveva scritto, l’ho saputo dopo, sarà un buon economo”. Non era un grande pronostico, in genere uno predice un futuro episcopale per fare un complimento. “Non era un complimento ma un pronostico, che si è avverato quando Mons. Gaddi mi ha chiamato a succedere a Mons. Labindo Serughetti, quello che aveva… costruito il nuovo Seminario in città alta, quello voluto da Papa Giovanni XXIII. Adesso bisognava farlo decollare e pagare i debiti”. Che erano tanti. “Altrochè. C’erano i due terzi da pagare. Ad un certo punto, d’accordo con il Vescovo io, Mons. Bortolotti che era rettore del Seminario, e Mons. Poli, responsabile dell’Opera Barbarigo, con l’aiuto del Card. G u s t a v o Testa, siamo andati a Roma dal Papa Paolo VI che ci ha ricevuto in udienza e ci ha ascoltato. Noi gli abbiamo detto che Papa Giovanni aveva voluto il Seminario ‘grande’ e aveva promesso che ci avrebbe aiutato a pagarne i costi. Però Papa Giovanni non c’era più… Ci può aiutare lei?”. E Paolo VI cosa vi ha risposto? “Ci ha detto di aver rinunciato alla tiara donandola per una fondazione che si occupasse dei poveri nel mondo. Per Bergamo, ci ha detto, vi dò una speciale benedizione che certamente vi aiuterà a pagare tutti debiti”. Ci siete rimasti male: “Tornando a casa eravamo tutti mortificati. E invece quella benedizione era la mano della Provvidenza che ci avrebbe veramente aiutato a risolvere tutti i problemi economici del Seminario. C’erano dei terreni di proprietà del Seminario a Presezzo, un paese che allora aveva 800 abitanti. Erano stati donati per la produzione di latte e carne per i seminaristi. Insomma c’era un’azienda agricola. Teoricamente valeva 500 milioni di lire. Ma solo in teoria, in pratica non si poteva toccare, si trattava di una donazione vincolata. Un giorno mi chiama il parroco di Presezzo don Ripamonti, che era stato direttore spirituale in Seminario e mi dice che a Presezzo moltissime famiglie cercavano di acquistare terreno dal Seminario per costruire la casa, ma dal Seminario è sempre arrivato un no. Mi chiedeva di rivedere i motivi di questo no. In quel momento penso sia stata proprio la benedizione del Papa che mi ha fatto scattare l’idea di lottizzare i terreni e accontentare chi desiderava costruire la casa. Ho convinto la famiglia dei donatori che non era tradire le loro intenzioni. Era il 1968. Era uscita la legge quadro sull’edilizia, ma non c’era ancora tutta l’attuale burocrazia sulle lottizzazioni, per cui è diventato facile vendere i vari lotti. Con questa lottizzazione i debiti del Seminario sono stati pagati fi no all’ultima lira, erano circa 4 miliardi e i 4 miliardi sono arrivati quasi tutti da Presezzo. Qui ho veramente visto la mano della Provvidenza”. Lei non sembra un prete manzoniano, di quelli che aspettano che la Provvidenza risolva le cose… Mi sembra uno che ha il fiuto degli affari. “No, io mi sento di più un prete manzoniano. Don Bepo Vavassori (fondatore del Patronato S. Vincenzo, il Don Bosco bergamasco) mi ha sempre detto: c’è la Provvidenza, bisogna stuzzicarla attraverso le persone”. Lei si è fatto la fama di costruttore e risanatore delle situazioni difficili più che di pastore d’anime: “Purtroppo mi hanno messo questa etichetta, che io rifiuto, etichetta forse anche nata per il fatto che dovunque sono andato ho sempre dovuto ristrutturare immobili e risanare situazioni difficili. Quando nel 1992 sono arrivato a Nembro e ho pensato di ristrutturare l’edificio che ospita tutte le attività della parrocchia, compresa la casa dell’arciprete, mi è stato detto: bisogna mettere a posto le chiese prima delle case dei preti. E io ho risposto: va bene, vorrà dire che anche questa casa parrocchiale la metterò a posto con i soldi della mia famiglia. Così avevo fatto in città alta con la casa che ho abitato dal 1980 fi no al 1992 vicina alla chiesa di S. Lorenzo dove adesso abita il parroco del Duomo; era un rudere e adesso è una villetta. Così ho fatto a Casale di Albino, dove ho fatto il parroco festivo, così ho fatto a Nembro”. Mons. Clemente Gaddi si ritira nel 1977 e gli succede Mons. Giulio Oggioni e lei viene nominato Vicario Episcopale per le attività amministrative. “Ho accettato soltanto a una condizione; di poter continuare il mio servizio pastorale come Curato festivo a Scanzorosciate. Non volevo girare come una trottola per le parrocchie. Ho girato per qualche Cresima, ma ho sempre voluto avere una base pastorale fi ssa e tenere l’insegnamento nelle scuole superiori, prima alla Ragioneria e poi alla scuola di Segretarie d’azienda. Prima volevo essere prete, insegnante e solo dopo interessarmi, sempre da prete, alle realtà economiche. Mons. Oggioni mi aveva dato fi – ducia illimitata, fi n troppa, dicevo io, per cui ho potuto operare con determinazione nel sistemare le varie realtà diocesane. C’erano varie società, nate negli anni prima del Concordato del 1929. Fino al 1929 la Chiesa non aveva personalità giuridica, per cui i suoi beni e quelli di varie congregazioni religiose erano intestati a società. La Diocesi di Bergamo ha continuato anche dopo il 1929 a mantenere questo stile di gestione dei beni. Solo più tardi, negli anni 50/60 provvederà alla Costituzione di Enti Concordatari come la S. Narno, la Pro Clero, l’Opera S. Alessandro, senza però trasferire i beni delle Società ai suddetti Enti. Come Vicario episcopale per le attività amministrative il mio primo impegno è stato quello di chiudere quasi tutte queste società e trasferire i beni ai reali proprietari: le varie Congregazioni religiose e gli Enti Diocesani. Tra le varie società c’era naturalmente anche L’Eco di Bergamo, che economicamente andava male, vendeva 25 mila copie, ma era un buco nero, tra l’altro non si capiva chi perdeva di più tra il quotidiano e la Buona Stampa, perchè le due attività erano intrecciate tra di loro. Per risanare la situazione abbiamo soppresso la libreria che aveva qualcosa come 18 dipendenti più il direttore, e abbiamo aperto una libreria specializzata per la stampa cattolica con soli 3 dipendenti. In quegli anni i quotidiani cattolici erano tutti in crisi; infatti dei 7 che esistevano in Italia è rimasto solo l’Avvenire e L’Eco di Bergamo. Quasi tutti hanno chiuso o sono stati assorbiti dall’Avvenire per motivi economici. L’Eco di Bergamo ha resistito con l’aiuto della Diocesi e, piano piano, è andato in attivo. Siamo passati dalle 25 mila copie di media vendute del 1978 alle 65 mila copie nel 1992. Tale risultato è frutto dell’investimento nelle più moderne tecnologie, del cambio della società di pubblicità, siamo passati dalla Manzoni alla SPE, dell’ampliamento degli spazi e l’avvio di una modernissima tipografi a; siamo stati aiutati anche dal gioco del Bingo”. E qui c’è lo scontro con l’altro grande personaggio bergamasco, il Direttore de L’Eco, Mons. Andrea Spada, recordman assoluto con 52 anni di direzione continua di un quotidiano: “Con don Andrea c’era amore e odio. Lui si opponeva alle varie proposte di innovazione e di ampliamento; era contrario anche al gioco del Bingo, per cui l’abbiamo lanciato quasi di nascosto. Quando don Andrea vedeva il risultato positivo delle innovazioni che a lui davano fastidio, mi mandava lettere di ringraziamento, riconoscendo la fatica che faceva a seguirci, e nello stesso tempo incoraggiandoci a continuare. Sul gioco del Bingo, visto il successo nell’incremento delle vendite, era arrivato anche a farci un editoriale memorabile”. Lei ha eliminato anche il cinema storico, il Rubini, punto di riferimento cittadino per il cinema cattolico: “Don Emilio Majer era contrario”. Don Majer è stato presidente nazionale fi no al 1999 dell’Associazione Cattolica Esercenti Cinema (A.C.E.C.) e del Servizio Assistenza Sale Cinematografi che (S.A.S.) parrocchiali, a suo modo una potenza. “Ma ne abbiamo parlato a lungo col Vescovo Mons. Oggioni. A Bergamo mancava un grande Centro Congressi e noi l’abbiamo realizzato. Il Vescovo mi ha dato il via libera, nella convinzione che il Centro Congresso avrebbe fatto un servizio a tutta la città. Nelle varie sistemazioni degli immobili fatiscenti ho dovuto sloggiare degli inquilini, ma posso dire in coscienza di non aver mai lasciato una famiglia senza casa. Si proponeva di lasciare l’appartamento ma nel frattempo gli si proponeva un altro alloggio. Così pure posso dire di non avere mai lasciato a piedi nessuno senza trovargli una sistemazione. Anche ai 18 dipendenti della vecchia Buona Stampa è stato offerto un posto di lavoro presso la nuova Società di pubblicità del nostro Eco di Bergamo, la SPE”. Ed è in questo periodo che tocca qualche interesse di troppo e pensano di “farlo fuori”. Don Nicoli si fa la fama di “duro”. Lei ha scritto: “La Provvidenza, che mi ha sempre accompagnato, volle che fosse proprio lui a morire in quei giorni, vittima di un incidente stradale”. Qualche suo confratello ha storto il naso, la Provvidenza non uccide uno per salvare un altro. “Figurarsi, volevo solo dire che la Provvidenza mi ha assistito anche in quei momenti difficili”. Lei diventa anche banchiere. “Ma no, avendo la Diocesi delle Azioni del Credito Bergamasco ed essendo io Vicario episcopale per le attività amministrative della Diocesi, sono stato coinvolto nelle trattative di cessione della Banca e sono riuscito a far saltare la bozza di accordo con la Banca Popolare di Novara e a portare la cessione alla Banca Crédit Lyonnais francese, che ci assicurava di mantenere la Banca Credito Bergamasco ancora in mano ai bergamaschi, pur avendo loro la maggioranza delle azioni. Da qui a dire che sono diventato un banchiere ce ne vuole della fantasia”. Ma Lei intanto si è fatta una fama che ha superato i confini della provincia e di molto quelli della Diocesi. Le avevano chiesto anche di lavorare per lo IOR: “Mi avevano contattato ma ho risposto un no secco”. Perché? “Perché volevo fare il prete, non l’impiegato. Comunque Marcinkus io non l’ho mai né visto né conosciuto, perché ero stato contattato da Mons. De Benis ancora prima di tutti i pasticci capitati con Marcinkus. Ero stato chiamato anche per l’economato della CEI, la Conferenza Episcopale Italiana, ai tempi del Card. Poma, ma lì è il Vescovo Mons. Gaddi che ha preferito tenermi al suo fi anco”. Ma poi a Roma ha accettato l’incarico di Delegato Pontificio. “Mi hanno chiamato a Roma nel 1995, quando ero già arciprete qui a Nembro, per affidarmi l’incarico di Delegato Pontificio della Compagnia di S. Paolo, che economicamente era in una situazione fallimentare. Ho accettato di occuparmene, come pure ho accettato altri incarichi dal Vaticano, ma sempre alla solita condizione: di restare parroco e pastore di anime. In 11 anni ho risanato le sorti della Compagnia di S. Paolo senza far mancare niente alla mia parrocchia come servizio pastorale”. Con un potere così vasto la tentazione di mettersi in politica ci sarà stata. “Mai mi sono occupato di politica, anche se ho sempre cercato di dialogare e di andare d’accordo con tutti”. Beh, la Curia di Bergamo è sempre stata indicata come il vero centro di potere politico locale e non solo. Lei ha lavorato con tre grandi Vescovi in epoche diverse: “A proposito di vescovi credo che Bergamo dovrà riscoprire prima o dopo la grandezza del Vescovo Oggioni… Pur essendo stato collaboratore diretto sia di Mons. Gaddi che di Mons. Oggioni, non li ho mai sentiti dire cosa bisognava fare, chi votare o cose del genere. Mai. Solo chiacchiere”. Certo, lo facevano con Mons. Spada a L’Eco di Bergamo. “Guardi che don Andrea era autonomo in tutto, non si lasciava condizionare da nessuno, quindi la vera politica l’ha sempre fatta lui, ma per conto proprio”. Lei, diventato Arciprete di Nembro, si scontra con i leghisti: “Mi hanno fatto qualche sgambetto, togliendomi per es. dal consiglio della Casa di Riposo, ma erano loro che non volevano aver a che fare con me. Io non ho reagito per nulla, anzi ho continuato a lavorare per il bene della Comunità sia religiosa che civile”. Ancora quella fama costruita su di lei: lasciamo stare, come ha precisato, le donne. Ma l’hanno sempre descritta come un prete che fa sport, che va sulle spider… “Sono favole, io personalmente ho sempre avuto macchine piccole, adesso ho una Smart. Se ho usato macchine grosse, era per servizio ed erano dell’Eco di Bergamo. La storia delle macchine sportive è pura leggenda. Forse è nata quando ho inventato un rally a Casale di Albino, rally che c’è ancora e sono salito su una di quelle auto, tanto per provare e da lì è nato il prete dalla spider rossa… Sport ne ho sempre fatto, ma di movimento, tennis, sci, bici… Prima della malattia facevo mezz’ora di cyclette ogni mattina dalle 6 alle 6,30 facendo la meditazione ascoltando Radio Maria. Adesso i medici mi hanno proibito ogni sport, solo passeggiate in pianura con moderazione”. E le fa? “Quando ho tempo. Magari da settembre, quando sarò più libero, anche se la responsabilità del Patronato S. Vincenzo e l’impegno in altre attività diocesane, del tempo libero me ne lasceranno poco”. Lei prete tipo “uomo solo al comando” quando arriva a Nembro si inventa una sorta di comunità da Atti degli Apostoli: “Ho chiesto al vescovo di portare con me un gruppo di preti, cinque in tutto, che condividessero il progetto di una vera fraternità sacerdotale e il lavoro per una vera pastorale d’insieme, dove l’arciprete è primus inter pares. Come fraternità sacerdotale: mangiamo tutti insieme nella mensa della casa parrocchiale, pur avendo ognuno la propria abitazione lontana dalla casa parrocchiale; il lunedì mattino c’è l’incontro collegiale dove si condividono i vari problemi della pastorale della parrocchia e si programma il lavoro della settimana e il luogo dove ogni giorno, ruotando da una chiesa ad un’altra, si va a celebrare la Messa. In alcune chiese vedevano l’arciprete due volte l’anno, adesso celebrano in ogni chiesa a rotazione, la gente di Nembro dice, ma quanti preti abbiamo? In realtà non ce ne sono di più, solo che si vedono di più. In questi anni sono stati cambiati solo due preti, ma anche i nuovi arrivati hanno accettato questo modo di lavorare insieme. La nostra fraternità sacerdotale si è estesa anche al Vicariato, per cui la nostra mensa e anche i nostri incontri sono aperti anche ai sacerdoti del Vicariato, che, specie al lunedì, arrivano numerosi. Oggi possiamo dire di essere in Diocesi l’unico esperimento di fraternità sacerdotale e di unità pastorale veramente riuscito. Questo stile di lavoro ha veramente vivacizzato tutta la parrocchia, creando una grande partecipazione anche di giovani coppie, di genitori e di volontariato in ogni settore. Il merito non è certamente mio, ma dei bravi collaboratori e del lavoro fatto in equipe”. Non ha citato che di striscio il Vescovo attuale, Mons. Roberto Amadei: “Non l’ho citato tra i maestri perché siamo coetanei, ma mi è sempre stato vicino e mi ha appoggiato in tutto”. E magari, inconfessato, c’è il rammarico che lei stesso non sia diventato Vescovo: “Avrei rifiutato”. Dicono (quasi) tutti così… “Conosco le mie capacità, come ho detto sopra non mi vedo nei panni di Vescovo, mi vedo di più loro vicino collaboratore”. Il Papa che le resta nel cuore: “Papa Giovanni Paolo II, perché è quello che ho conosciuto meglio”. E ha deciso di morire qui a Nembro: “Il progetto era di ritirarmi, per quel che resta della vita, alla Trinità di Albino, dove l’anno prossimo sarà pronta una grande struttura come Centro di Spiritualità per le famiglie. Poi i tempi sono precipitati. I medici mi hanno detto, se fosse stato solo qualche anno fa le avremmo dato due mesi di vita, adesso la chemioterapia è più mirata, per cui c’è la speranza di poter convivere di più con la malattia, non certo di fare progetti con un futuro così incerto”. Una cosa che vorrebbe le fosse riconosciuta? “Quella di esser quel che sono e ho sempre voluto essere: sacerdote pastore d’anime più che amministratore, perché anche nell’amministrazione mi sono sempre mosso e comportato da prete nel senso più pieno della parola. E non ho mai fatto piangere nessuno”.
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