INTERVISTA: PIERO BORGHINI – Basta col bipolarismo di guerra

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    Archivio 11 Marzo 2005

    Piero Bonicelli

    La casa sta in cima ad un… colle che domina il lago, quasi che le valli si mostrassero nude per essere osservate in tutta la loro bellezza, mica è poco per chi ha fatto il sindaco della metropoli d’Italia, quella Milano da bere che poi si è fatta bere da qualcun altro, ma questa è un’altra storia.

    Piero Borghini abita qui, Solto Collina, vista lago, vecchia villa (“E’ del 1916”) che sta ristrutturando a poco a poco, scappando da Milano appena può per respirare aria di solitudine con orizzonti come si deve. L’assessore che Formigoni ha voluto pochi mesi a dispetto della Lega e anche di altri alleati, doveva coprire il ruolo di ambasciatore di una certa sinistra riformista che col bipolarismo ci vive malissimo, punta a un partito “moderno”, quello che, guardandosi in giro, poteva chiamarsi “partito democratico” (all’americana), o “partito laburista” (guardando a Blair) o semplicemente “partito riformista”, guardando (semplicemente?) al mondo.

    Guardando invece all’Italia, questa è gente che vive male, sembra tagliata fuori da un mondo politico che pure ama, è la sua vita, qualcuno ha bussato alla Casa delle Libertà, si è guardato in giro per capire, alle pareti ha trovato quadri appesi alla rinfusa, appena spolverati, Don Sturzo e De Gasperi, Don Giussani ed Einaudi, Don Baget Bozzo e un fotomontaggio di un Mussolini che beve acqua di Fiuggi… Una intera parete è affrescata con una gigantografia del leader maximo. Ma anche chi è restato dall’altra parte (centrosinistra) si è reso conto che sta in un edificio di difficile definizione, a mezzo tra un ostello della gioventù e una casa dell’eterno riposo.

    E così questa è gente che è stata defilata per qualche anno, in un ritiro sdegnoso e risentito. Borghini ha diretto l’operazione “Arcobaleno”, non quella dello scandalo, ma la parte “privata”: “Sono stato due anni nel Balcani. Abbiamo raccolto 123 miliardi e li abbiamo spesi costruendo scuole, case e ospedali creando sinergie importanti con Ong come Bergamo per il Kossovo e la Caritas bergamasca. E’ la cosa più simile alla politica che si poteva fare…”.  Questa casa sorprendente (aprendo una porta si entra in un piccolo belvedere dove mi piacerebbe il mattino leggere il giornale, guardando di quando in quando l’acqua del lago, increspata dall’Ora, il vento del pomeriggio) sembra un rifugio. Ma Borghini è rientrato in politica.

    La politica ce l’ha nel sangue e prima ancora nel cuore. E proprio non gli va giù che agli altri, alla maggioranza, la politica piaccia poco, sempre meno: “Quello che manca è proprio la politica, senza quella non si va da nessuna parte, si sta fermi” mica come negli anni ’50 dove il mondo correva felice: “Abbiamo avuto culo, un grande culo ad avere una classe politica eccellente dopo la guerra” e si sa che prima o poi la fortuna chiede dazio. “Un paese senza politica rischia la guerra civile, come nell’ex Jugoslavia, ci vogliono classi dirigenti che capiscano i fenomeni. Guardate alle classi dirigenti impresentabili nell’Est dopo la caduta dei regimi comunisti. Anche l’Italia adesso rischia di morire per mancanza di politica. Dal 1992 abbiamo avuto solo convulsioni, con qualche sforzo anche generoso di rinnovamento… Ma a dieci anni dalla fine del prima repubblica, abbiamo soltanto un sistema bipolare dove dominano le estreme… In tutti gli altri paesi a sistema bipolare è la componente centrale che governa. In Italia non è così, in entrambi gli schieramenti pesano più le estreme, da una parte Rifondazione e Comunisti Italiani, dall’altra la Lega. Così viene esaltata la faziosità. E adesso litigano perfino sui morti…”.

    Piero Borghini è così, lui che chiama Cofferati Mao, lui che definisce Sarfatti: “Una scelta sbagliata, senza logica, una scelta di Massimo Cacciari che non conosce la Lombardia e nemmeno Venezia, basta vedere come si sta comportando con la vicenda Casson”. Si parlava di Pia Locatelli: sarebbe andata al massacro? “Pia avrebbe perso ma in modo ben diverso, era comunque una scelta buona e dignitosa. In politica si vince e si perde. Sarfatti non c’entra niente con la Lombardia”.

    Il tono è importante, le frasi lette così sembrerebbero durissime. Borghini invece le pronuncia con garbo, senza acredine, solo deluso che il disegno che aveva tracciato Formigoni sia stato pasticciato. “La Lombardia è importante. Qui Formigoni ha tentato di uscire da quello che lui chiama ‘bipolarismo di guerra’ per governare. Ma è un Governatore che non riesce a governare come vorrebbe. Non si riescono a fare le riforme, scuola, sanità, lavoro… Ma guarda, come si fa a fare una riforma in un paese in cui quando per fare la Legge Biagi ha dovuto morire il suo autore? Come si fa a fare una politica estera di qualche consistenza quando tutto finisce in contrapposizione faziosa? La Lombardia ha il 30% del prodotto interno lordo del paese e il 30% delle esportazioni, l’80% dell’industria della comunicazione è lombarda, dei servizi bancari, della ricerca, dell’università…”. Sull’università Borghini fa un lungo discorso, ogni città ha ormai la sua università, ma poi manca la capacità ricettiva “la cultura dell’ospitalità e soprattutto abbiamo il tipo sbagliato di laureati, perché ci mancano ingegneri, chimici e ricercatori. Ma la nostra regione, con questi numeri, non ha soprattutto un’adeguata accessibilità, la difficoltà di raggiungere gli aeroporti. E non bisogna perdere l’occasione perché il ‘Corridoio 5’ passi da noi, e non ci bypassi a nord delle Alpi”.

    Ma adesso che il progetto di Formigoni è stato stracciato, col listino ridotto a spartizione alchimistica ancora tra i partiti, con la tua presenza solitaria, non ti senti una foglia di fico ch\e copre niente? “No, perché il tentativo andava fatto e poi non è fallito, aspettiamo a dirlo. Nel 2006 potrebbe essere un cambiamento. Quello di Formigoni non è stato un gioco di potere come si è scritto, ma un’operazione politica, si è messo in discussione, ci ha provato. C’è bisogno di fare politica perché stiamo andando indietro. Una crisi che non dovrebbe esserci se Berlusconi fosse davvero un leader politico. C’è in atto un altro disegno per il 2006, certi poteri forti stanno preparando il terreno per mandarlo a casa. Si creerà un vuoto che va riempito con la politica: il progetto di Formigoni è di inserire in una componente liberale e cattolica un rinforzo socialista che tenga in debito conto il sociale”. Questa di Berlusconi che verrebbe mandato a casa dai “poteri forti” (“il Colle, Confindustria…”) la lasciamo lì, sospesa, non perché naturalmente non interessi, ma perché Borghini non vuole aggiungere altro.

    Del centrosinistra parla solo con il rammarico di quel “partito riformista” che non c’è e che non crede vogliano e riesciranno mai a mettere insieme. Per questo ha creduto e nonostante lo stop, che ritiene momentaneo, crede più a Formigoni e al disegno di un’area di centro che unisca le componenti liberale-cattolica-socialista in un colpo d’ala politico che si liberi dalle zavorre del passato e delle “estreme”. 

    Ognuno ha il suo, di passato. Borghini era nel vecchio Pci, se n’è andato tra i primi, avvertendo che non si poteva far finta che il muro di Berlino fosse un abuso edilizio. Bergamo l’ha conosciuta nell’anno in cui è stato direttore del “Giornale di Bergamo-oggi”. Breve esperienza, quanto è bastato per misurare anche qui le piccole beghe di periferia. E proprio in quel periodo, a cavallo tra il 1994 e il 1995, ha adocchiato questa casa in cima alla collina, da cui guarda il lago che adesso è piatto, forato dalle isole, isole senza correnti che vien voglia di soffiarci sopra per far muovere le acque (mediocre metafora politica). Borghini non deve essere votato, fa parte del pacchetto-listino di Formigoni. Il suo assessorato è certo, nei limiti delle certezze politiche. Purché a far politica si torni davvero.

    SCHEDA

    Borghini l’ultimo sindaco riformista di Milano

    L’ingresso di Piero Borghini nella giunta Formigoni non è ordinaria amministrazione. Ex Pci di rito migliorista, già direttore di “Nuova Generazione”, il giornale dei giovani comunisti (fra i suoi redattori c’era anche Giuliano Ferrara), poi vicedirettore dell’Unità, presidente del Consiglio regionale, consigliere comunale, e poi a sorpresa «ultimo sindaco riformista di Milano» prima della stagione leghista, direttore per un anno del Giornale di Bergamo-oggi, il neo assessore – un signore pacato e assai lontano dagli strilli di certa politica – è condannato a dare scandalo. Molta sinistra non gli ha ancora perdonato oggi l’esser stato il “sindaco di Craxi” a Milano (eletto il 18 gennaio 1992, si è dimesso il 16 febbraio 1993 dopo 395 giorni da sindaco di Milano: dimissioni diventate esecutive l’11 marzo 1993).

    Erano tempi in cui il sindaco non veniva eletto dai cittadini, ma designato dai partiti. A volere Borghini alla guida di Palazzo Marino al posto di Paolo Pillitteri, fu Bettino Craxi e tanto bastò perché i vecchi compagni del Pci gli togliessero il saluto.

    Da allora, è sempre stato un «senza partito», anche se per formazione e cultura è rimasto comunque un uomo di sinistra.
    Bresciano, laureato in lingue, 62 anni nel 2005, per un breve periodo ha studiato filosofia a Leningrado, ha sposato un’inglese (dalla quale ha avuto due figli), ha vissuto per un paio d’anni a Londra e, nel 1961, è entrato nel Pci. Parlava il russo, e questo era un buon biglietto da visita, ma anche l’inglese e per questo lo hanno sempre considerato un po’ snob. Ala migliorista, quella di Amendola e Napolitano, per intenderci, cioè la «destra» del partito, la corrente dei moderati che fino all’ultimo hanno cercato il dialogo con i socialisti di Craxi.
    Il divorzio è avvenuto con la sua nomina a sindaco il 18 gennaio 1992.

    Qualcuno gridò al tradimento e lui, con il suo eterno aplomb, si limitò a commentare: «Lasciare il Pci sarebbe stato più complicato». Ma il Pci non esisteva più, ora si chiamava Pds.
    La sua avventura a Palazzo Marino durò soltanto 13 mesi: un anno dopo la sua elezione venne arrestato Mario Chiesa, scoppiò lo scandalo Tangentopoli e iniziò uno stillicidio di nuove inchieste giudiziarie, avvisi di reato, arresti. Borghini si dimise il 16 febbraio per provocare lo scioglimento del Consiglio comunale. Enzo Biagi scrisse sul Corriere: «Si era presentato con una faccia onesta ed esce con la reputazione di galantuomo. Credo che i passanti lo saluteranno togliendosi il cappello».

    A Formigoni è bastato sventolare la bandiera del riformismo per convincerlo a entrare nella lista. Borghini ha accettato ben volentieri, paragonando la spinta innovatrice del presidente a quella di Tony Blair. Per sé, invece, l’ex sindaco aveva auspicato il ruolo di Peter Mandelson, dandyssimo spin doctor del premier inglese (e commissario europeo al Commercio).

    Il presagio si è avverato. Oggi Borghini è assessore alla Casa, responsabile Affari Internazionale della Fondazione Fiera, ma soprattutto braccio politico di Formigoni e numero uno a Milano dell’eventuale lista. Non a caso, qualche giorno fa, ha fondato l’associazione Europa insieme, laboratorio riformista e pensatoio formigoniano. Tra i soci c’è gente che vota e fa votare: Carlo Sangalli, presidente della Camera di commercio, Adriano De Maio, rettore della Luiss, e Danilo Broggi, a capo della Confapi, la confederazione delle piccole e medie industrie.

    Come Borghini, sono molti gli ex di richiamo che hanno dato disponibilità: Livio Tamberi, ex presidente ulivista della Provincia, Giuseppe Giovenzana, già presidente Dc della Regione, Piero Bassetti, storico cattolico liberale, e il terzista Sergio Scalpelli, che è stato assessore nella giunta di Gabriele Albertini.

     

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