Anna Ceriani
Quando si siede al bar di fronte a me, lo fa lasciandosi cadere con un sospiro. Ma nel suo andare verso il basso non c’è nulla di goffo, né il suo corpo trasmette un senso di pesantezza: al contrario la schiena si abbassa con grazia, come mossa appena dal vento e, davvero, pare una nuvola che sfiora il bordo del tavolino.
“Ciao Marianna” le dico e d’istinto le prendo la mano, gliela stringo, e non la lascio, mentre le chiedo se è sicura di voler fare l’intervista.
Mi guarda, sorride, si vede che è stanchissima. Poi posa gli occhi sulle nostre mani intrecciate, stringe le mie dita “Sì, certo che sono sicura”.
Sospira, ripensa alle ore appena passate. Me le racconta.
“Ciao Anna”. “Ciao mamma”. La voce della sua bambina arriva come sempre in un soffio, affaticata dalla lunga notte appena trascorsa quasi totalmente priva di sonno. Suo marito che si alza dalla poltrona–letto, dove anche per lui la notte era trascorsa pressoché insonne. Lei che gli dà il cambio in ospedale, in quella camera dove la loro bambina è ricoverata ormai da molti mesi e dove il suo piccolo corpo acerbo sta combattendo contro la leucemia. Seduta accanto al letto aveva guardato Anna: si sarebbe mai abituata a vedere tutti quei tubi che le martoriavano il corpo?
Avrebbe mai potuto non sentire il pianto che le saliva in gola ogni volta che Anna la fissava dal profondo delle sue occhiaie scure e le tendeva la manina tanto pallida e fragile, che temeva sempre di rompere anche solo con una carezza?
La sua bambina era in quell’ospedale ormai da così tanto tempo che ne conosceva alla perfezione il ritmo: l’orario dei prelievi giornalieri e poi il controllo del peso e della pressione, con le gambine esili che a volte tremavano tanto forte da non sorreggerla e doveva appoggiarsi alla sua mamma o all’infermiera per un improvviso mancamento. E così bisognava rifare tutto da capo, perché le misure erano falsate, sperando che per un attimo la forza fosse sufficiente e non si dovesse ripetere, ripetere e ripetere ancora.
Cerco di interrompere il flusso dei pensieri; mi sembra che stiano andando verso un dolore intollerabile.
Per me. “Certo in ospedale tutto entra in un tempo indefinito. E’ difficile mantenere il senso della realtà. Come fate a far passare il tempo?”. “Io e Anna abbiamo dei piccoli giochi. Abbiamo dei riti solo nostri, che si ripetono quotidianamente, ma a cui non rinunciamo mai”.
L’orario della colazione per esempio è variabile e perciò è diventato un picco lo gioco indovinarne l’arrivo: cinque minuti? Dieci? Mezz’ora? E chi avrebbe portato il carrello quel giorno? L’infermiera Lucia? O Maria? O l’unico uomo del reparto, Giuseppe? “Il tempo infinito di una giornata in oncologia si passa anche così: indovinando l’orario dei diversi avvenimenti ed inventando penitenze assurde”, mi dice Marianna e per un attimo segue con lo sguardo il cameriere che ci porta due spremute. Ma a tradimento mi pianta addosso uno sguardo sgomento e il succo mi pare improvvisamente troppo, troppo acido. Prosegue a raccontare, senza mollarmi gli occhi.
Altri giorni erano terribili: il vomito non dava tregua ad Anna e le sconquassava le spalle, mentre Marianna le reggeva la piccola fronte imperlata di sudore. Brividi di freddo la facevano tremare, senza che alcuna coperta potesse fermare gli spasmi che la scuotevano. Senza che nessun abbraccio potesse rassicurarla: ”Tranquilla Anna, tranquilla bambina mia, ci sono qui io. C’è la tua mamma e non ti accadrà nulla”. Non era vero. Era una bugia. Le afte parevano spuntare ovunque, tra pieghe della pelle che non sapeva neppure di avere e si infettavano, bruciando in modo insopportabile. “Tranquilla Anna, non avere paura figlia mia. La tua mamma ti proteggerà”. Ancora non era vero. Ancora un’altra bugia. “Ultimamente Anna non vuole neppure più indossare la bella parrucca bionda che avevamo comperato tempo prima, quando si era dovuta rasare la testa, perché i capelli cadevano a ciocche dopo le prime chemioterapie”. Marianna ricorda il viso stupito e l’espressione sgomenta della sua bambina di fronte al cuscino coperto dai propri capelli. Aveva paura e si passava le manine sulla testa, sperando di sentire ancora i suoi riccioli ribelli che si attorcigliavano in mille nodi sulle dita.
Era stato difficile accettare quella situazione ed Anna aveva pianto moltissimo, rifiutandosi persino di andare a scuola e di uscire di casa. Poi era arrivata la reazione (che coraggio aveva la sua bambina!) ed un pomeriggio erano entrate in un negozio che vendeva parrucche. Anna ne aveva provate a decine prima di decidersi per un caschetto biondo, liscio liscio, l’esatto contrario di come era al naturale.
“Ora, però, il cuoio capelluto è troppo sensibile ed i bulbi dei capelli troppo infiammati per riuscire a tenere in testa persino la bandana colorata e Anna si è dovuta nuovamente adattare alla calvizie. Lo ha fatto silenziosamente questa volta, senza una lacrima né un moto di rabbia. E’ stanca la mia bambina, davvero tanto stanca.” Marianna mi lascia la mano e per un attimo pare inquieta, come se un’urgenza improvvisa le fosse salita dal cuore alla testa. “Che ore sono?” mi chiede “Le 15.30” rispondo e lei è già in piedi. Il mio tempo, il suo tempo è finito. Quel giorno sarebbe stato un giorno speciale e gli occhi grandi di sua figlia l’aspettavano. Al mattino aveva guardato il grande foglio che le insegnanti della scuola in ospedale avevano appeso all’armadio della sua camera.
In quel foglio, che aveva colorato mesi prima, quando ancora poteva reggere in mano una matita, ogni giorno era rappresentato con un pastello diverso, ad indicare una diversa attività. Assomiglia va ad un grande arcobaleno quel foglio ed era ormai il mondo di Anna, l’unico che lei riconoscesse, l’unico in cui poteva vivere. “Grazie al cielo che le maestre hanno avuto l’idea di far entrare un po’ di colore in tutto questo grigio” mi dice Marianna “È domenica, vero?“ aveva chiesto. Sapeva benissimo che giorno fosse, ma le piaceva prendersi il proprio tempo e gustarsi fino in fondo ciò che ci sarebbe stato quel pomeriggio. Marianna era stata al gioco, come sempre, aveva assunto un’aria stupita: “Sì, tesoro, oggi è domenica, perché ?”. Anna le aveva sorriso di rimando, ma aveva taciuto.
Allungava l’attesa di proposito. Erano andate in bagno piano, piano, trascinandosi la pompa della fleboclisi ed era stato un tragitto pieno di insidie: lo spigolo del tavolo, lo stipite della porta e quel piccolo saltino nel linoleum sul pavimento. Bisognava fare attenzione: le piastrine erano così basse che il sangue faticava a coagulare ed anche il più piccolo livido si sarebbe potuto trasformare in emorragia. Per questo, oltre alla chemioterapia, dalla flebo penzolava una sacca di sangue per la trasfusione: la “bistecchina”, la chiamava Anna.
Ma come faceva ad avere voglia di scherzare? Finalmente quando erano arrivate in bagno avevano preso la manopola di cotone ed il sapone neutro per lavare il viso. Lei sedeva sullo sgabello e la lasciava fare, chiudendo gli occhi, già di nuovo stanca. “Allora oggi viene Clara e si fa musicoterapia!” aveva detto trionfante mentre alzava il braccio per lasciarsi pulirle le ascelle. “Si fa musica!”. Marianna aveva sorriso nel vederla così felice: finalmente l’attesa era finita e la sua piccola si era lasciata andare a scoprire quel suo piccolo tesoro settimanale. “Sì, oggi si canta e si balla” aveva risposto, attenta a mantenere una presa leggera sul polso diafano, dalla pelle sottile. Anna aveva riso contenta ed era così raro ormai, che toccava a Marianna ora gustarsi il momento magico di quell’aria birichina della sua bambina. Le note che tra poco sarebbero risuonate nei corridoi e nelle stanze di quell’ospedale annullavano il presente che pareva solo sofferenza e portavano in uno spazio senza tempo, che accoglieva tutti i sogni e i desideri imprigionati nella malattia.“La musicoterapia è per Anna un’occasione speciale di uscire dall’ospedale con la mente e con il cuore, di staccarsi da quel corpo che l’ha tradita e che le è nemico. Attraverso i suoni ed il ritmo degli strumenti riesce a rientrare in con tatto con le proprie emozioni, dove trova uno spazio immateriale che gestisce solo con la propria fantasia. Libera. Non è più rinchiusa in quella stanza, inchiodata ad un ago che, forse le salverà la vita, ma che per ora le pesa come una catena. Parte per un viaggio meraviglioso che la trasporterà nel suo mondo interiore ancora intatto, fatto di sogni, giochi e speranze che la malattia non ha ancora intaccato. Il canto, la musica, le note che la circondano in quelle due ore sono una medicina senza controindicazioni né effetti collaterali, tanto che persino i medici hanno riconosciuto essere una parte del pro cesso di guarigione.
Anna sarà felice” mi dice “e, sì, questo sarà un giorno speciale”. Forse, era per quello che le maestre lo hanno evidenziato di un bel giallo brillante nel calendario appeso in camera. “Vedi?” e Marianna mi mostra la sua copia che tiene sempre con sé, mentre non è già più qui. La sua pausa è finita e deve tornare in camera. I pochi minuti che si concede fuori dalla stanza e che oggi mi ha dedicato sono terminati e la volontaria che l’ha sostituita deve andare da un’altra mamma, che avrà anch’essa qualche momento d’aria, un piccolo spazio per sé. “Ciao Marianna” le dico. “Ciao” mi risponde e si allontana. Ha lo stesso modo di camminare di quando eravamo ragazze, penso, lo stesso modo di muovere le braccia di quando usciva dal banco e andava alla cattedra per una interrogazione. Ma allora eravamo al liceo, eravamo giovani e non sapevamo che la vita può essere più difficile di un quattro in latino. Molto, molto più difficile. Quasi insopportabile.