Maria ha gli occhi grandi e scuri che ti si inchiodano addosso e sembrano pronti a tutto per difendere il suo amore, i suoi amori, che non sono uomini ma sono fgli. Maria Prestopino arriva in redazione con Sara, che è un pezzo di quell’amore, sua fglia, che la segue come un’ombra e non le schioda mai gli occhi di dosso. Maria, maglietta nera e jeans scuri, magra, 52 anni da compiere il 26 agosto, ma ne dimostra di meno, comincia… dalla fne: “Fammi ringraziare la Procura di Bergamo e il maresciallo di Lovere, Alberto Obino, senza di loro non sarei qui, non ce l’avrei fatta”. Maria è qui per raccontare e raccontarsi, per raccontare 20 anni di botte, umiliazioni, disperazione e dignità, la sua dignità che non ha mai perso anche quando era a terra con la faccia rotta dalle botte del marito. Maria è qui a raccontare quello che in questi mesi tutti chiamano violenza sulle donne e femminicidio ma che poche hanno la forza e il coraggio di venire a metterci la faccia: “Lo faccio per tutte le donne come me, perché abbiano la forza per dire basta, io ci ho messo anni, è vero, è stato un percorso lungo, i miei fgli adesso sono maggiorenni e nessuna assistente sociale me li può togliere. Io voglio che tutti sappiano che la dignità e la voglia di vivere vengono prima di ogni altra cosa, prima di tutto, e con la dignità e la voglia di vivere si riesce a uscirne”. Maria comincia e non smette più, parla per due ore e mezzo, lucida, snocciola giorni, mesi ,anni, notti di maltrattamenti, come fossero ancora tutti lì davanti alla sua testa. “Mio padre è italiano, mia madre greca, io sono nata a Bengasi, in Libia, mio padre si trovava lì per lavoro, dopo 40 giorni siamo andati a Il Cairo dove sono rimasta sino a quando avevo 27 anni”. Lì Maria studia lingue: “Ne parlo correttamente cinque, italiano, francese, inglese, arabo e greco”. Il padre lavora nel settore tessile, lei studia e gira il mondo, Costa Azzurra, Francia, Spagna, Germania: “I miei genitori erano separati e ognuno si è rifatto una vita, io intanto studiavo e sono cresciuta dalla sorella di mia nonna che mi ha fatto da mamma”. Maria ha 4 anni quando conosce Moustafa, lui ne ha 9: “Le nostre famiglie si frequentavano e lui era sempre a casa mia, eravamo amici, io studiavo in un collegio di suore e nel periodo estivo, quando la scuola era fnita, giravo il mondo per perfezionare la conoscenza delle lingue straniere, mio padre girava molto per lavoro e ne approfttavo, lui stava a Prato, in Toscana, poi andavo in Grecia, Canada, insomma dappertutto”. Moustafa invece frequenta il liceo scientifco, si iscrive all’università, Economia e Commercio a Il Cairo. L’amore è scattato subito? “No, a quattordici anni è scattata l’amicizia, una grande amicizia, non era innamoramento ma scambi di idee, si parlava dei miei viaggi, lui parlava di quello che avrebbe voluto fare, ci si scambiava esperienze, me le raccontava”, un’amicizia che dopo tre anni si trasforma in amore: “Io avevo 17 anni, lui 22, ci siamo innamorati. Ma lui era un uomo chiuso, stava sempre zitto, non parlava mai, non diceva cosa pensava, avrei dovuto capire subito che qualcosa non andava in lui e invece non ne sono stata capace”. I due si frequentano per parecchio tempo: “Ma non abbiamo convissuto, in Egitto c’è un percorso particolare da seguire, lui comunque era gentile, garbato, io intanto dopo gli studi ero stata chiamata alla Fiat a Il Cairo ed ero diventata la segretaria personale, stenografa e dattilografa del direttore generale. Conoscevo 5 lingue e partecipavo a riunioni importanti, conoscevo l’ambasciatore italiano. Un’esperienza stupenda, ero felice”. Erano gli anni in cui a Maria sembra di poter avere il mondo in mano: “Quando uscivo dal lavoro andavo al bar magari a mangiarmi un panino o a bere qualcosa e forse lì avrei potuto intuire qualcosa, lui veniva con me e non mi ha mai offerto nulla, fngeva sempre di dimenticarsi a casa il portafoglio”. Dettagli quando si ama. “A 22 anni mi sono sposata, un contratto matrimoniale civile, perché io ero cattolica e lui musulmano. Il certifcato di matrimonio si traduce in lingua italiana e si legalizza presso l’Ambasciata Italiana. Poi si trascrive presso il comune di residenza, Prato”. Moustafa si trasferisce nella grande casa sul Nilo di Maria: “Avevamo una grande casa in centro, grandissima, la mia prozia infatti aveva sposato un direttore di banca ed era gente ricca. Moustafa era interessato solo al lato economico e basta e io non me n’ero accorta. Io lavoravo e lui non faceva nulla. Nessuna attenzione, nessun gesto di affetto, nemmeno un piccolo regalo, niente”. La prozia comincia a star male: “Una grave forma di coma diabetico, chiamo mio padre che è in Italia, viene, capisce la situazione e mi dice di raggiungerlo in Italia”. Il papà di Maria non vede di buon occhio Moustafa: “Non gli era mai piaciuto, mi ha sempre detto che non era l’uomo giusto per me. Mio padre nel frattempo mi intesta la ditta in Italia, ditta che lui dirige. Io parlo cinque lingue e posso essergli utile in azienda e Moustafa che ha studiato Economia e Commercio può lavorare in uffcio, ci trasferiamo”. Maria e Moustafa lasciano la grande casa sul Nilo: “Arrivo e scopro che mio padre mi ha già acquistato una casa pagandone metà dell’importo, il resto, mi dice, lo pagherete voi con il lavoro. Ci compra anche un’auto e poi c’è la casa al mare, insomma avevamo tutto”. La casa è a Vaiano, zona industriale di Prato: “Eravamo appena sposati e lui prendeva l’auto il sabato e la domenica e spariva, andava a Firenze, mi lasciava da sola a casa. Mio padre ci aveva regalato anche dei quadri di valore ma lui non li aveva mai appesi, andava in giro e basta. Mio padre capisce che qualcosa non va, si ferma da me e aspetta il suo rientro, va nell’altra stanza, mio marito entra e mi dice ‘cos’hai preparato per cena?’, mio padre esce dalla stanza ‘non ha preparato niente, potresti fare qualche cosa anche tu senza andare sempre a Firenze’, Moustafa sbianca e prende scuse. Mio padre prima di andarsene mi dice di stare attenta, aveva capito tutto, io non ancora”. Passano due mesi: “Intanto mio padre lavorava per fargli avere il permesso di soggiorno ma Moustafa con me comincia a peggiorare, dice che non gli piace il lavoro, che non gli piace l’auto, comincia a trattarmi male, a dire che vuole tornare in Egitto, non è mai contento, si lamenta sempre. Prendeva lo stipendio e lo spendeva tutto subito. E papà che pagava bollette e tutto quanto perché non rimaneva mai un soldo. Quando ero con lui non potevo mangiare prosciutto, quando c’era mio padre faceva fnta di niente. Arriva la mia prozia, quella che io chiamavo nonna e che mi aveva allevato, dopo 15 giorni muore, mi è crollato il mondo addosso, mi aveva cresciuto lei, avevo 27 anni e mezzo”. Intanto i rapporti tra il papà di Maria e Moustafa peggiorano: “Al lavoro non combinava nulla, non era all’altezza del ruolo che gli avevano assegnato, così mio padre decide di spostarlo ai macchinari, decisione che manda su tutte le furie Moustafa, discutono e litigano. Se la prende anche con me, dice che mio padre non ci aiuta, ma come, ci aveva dato tutto, casa, auto, stipendio, settimana bianca. Niente da fare, Moustafa vuole tornare a Il Cairo perché là avevo ancora la grande casa della zia che era morta. Mi trattava male, non mi parlava. Mio padre mi dice di divorziare ma io non me la sono sentita sono ripartita con lui. All’aeroporto stavo male, pensavo alla mia zia morta, che era come una mamma, glielo dissi e lui mi disse che non gliene fregava niente. Stavo male, ero incinta e ancora non lo sapevo”. Maria e Moustafa rientrano con 8 milioni di lire di liquidazione e un po’ di soldi che il papà di Maria gli aveva dato. Inizia la via Crucis di Maria, una Via Crucis che si conclude a dicembre del 2012: “Prese i soldi e li mise in banca a suo nome, cominciò a urlare, non voleva il fglio, voleva che io andassi a lavorare, diceva che il bimbo sarebbe stato un peso, io stavo male, voleva che lavorassi ma non ne avevo le forze, trovò un lavoro part time e poi grazie alle mie conoscenze riuscì a prendere un taxi, in Egitto gli stipendi erano e sono bassi, io ero a casa, incinta e senza soldi, rientrava a notte fonda, non portava soldi, mi diceva che aveva rotto l’auto, si inventava scuse di tutti i tipi, partiva alle 8 del mattino e tornava a mezzanotte. Continuava a prelevare soldi in banca e a spendere, mi lasciava le bollette da pagare e io usavo i pochi soldi rimasti. Veniva suo fratello e mi prendeva i soldi rimasti. Suo padre era ammalato di tubercolosi e si trasferì a casa nostra, ero incinta, stavo male e dovevo curarlo, badare a suo fratello e a tutti. Io non stavo in piedi, era una gravidanza a rischio. Non avevo più la mia famiglia a casa ma la sua, mi stava togliendo tutto”. Mio fglio nasce il 21 luglio del 1989, parto cesareo: “Alle sei e mezza del pomeriggio, un parto diffcile in un ospedale privato, dovevo fermarmi per una settimana perché stavo male ma si doveva pagare la degenza, lui non pagò. Io stavo male, non venne nemmeno a trovarmi. Mi fecero uscire che non stavo in piedi, ero piena di punti, arrivai a casa con sua sorella che mi insultava. Arrivai a casa che c’erano 42 gradi, dovevo lavare, stirare, non c’era nulla da mangiare, sua sorella se ne andò a una festa, mi lasciarono così, senza niente. Moustafa non venne a prendermi per non dover frmare la dimissione dall’ospedale, la frmai io e me ne assunsi ogni responsabilità”. Maria non ce la fa, febbre alta, senza cibo: “Telefono a mia madre che si era rifatta una vita all’estero e rientra. Va a comprarmi da mangiare, non avevo neanche i pannolini, niente. Non mangiavo. Si prende cura del bimbo ma di notte comincio a star male, mia madre chiama l’ospedale, arrivano, mi fanno un’iniezione, dicono che sto rischiando la vita, sto male. Mia madre si ferma 40 giorni, rimane con me e mi aiuta, Moustafa se ne frega. Mio fglio comincia a star male tanto, ha problemi respiratori, l’ospedale dice che è malato, la tbc di mio suocero lo ha contagiato, mia madre dice a mio suocero di andarsene per il bene del bambino, mio marito la prende male”. Passano 40 giorni e la madre di Maria riparte: “Comincia il dramma, mio fglio è malato, ha bisogno di cure, Moustafa non mi dà i soldi, urla che devo andare a lavorare, comincia a prendermi a schiaff, spintoni, umiliazioni di tutti i tipi. Mio fglio piange, non dorme, non ho più soldi, me li spedisce mia madre. Mio marito nel frattempo ha un incidente e distrugge l’auto. Mio fglio è molto malato, ha sempre 41 febbre, non posso abbandonarlo per cercare un lavoro”. Intanto i soldi fniscono: “Moustafa urla di chiamare mio padre che però non vuole più sentire parlare di lui”. Moustafa ha agganci in Lombardia, a Darfo e decide di partire con Maria e il fglio: “Disse che sarebbe entrato in società con un suo amico che aveva una pizzeria, che ci avrebbe ospitati nella sua villa. Raccontava frottole. Prima di partire mi mandò al consolato a fare il visto turistico per suo fratello, il biglietto aereo per lui, per me, per Mio fglio e poi dovetti lasciare sei mesi di anticipo alla moglie di suo fratello, mi fecero fnire così tutti i soldi rimasti. E quando arrivammo la villa promessa era una piccola casa con i materassi gettati a terra, io avevo con me solo lo stretto necessario, mi era rimasto addosso qualche cosa d’oro di mia nonna. Non avevo niente. Piangevo”. Il bambino era sempre più malato: “Andavo dal pediatra a pagamento, Moustafa non era in società come aveva detto ma lavorava come cameriere. E dopo poco i suoi amici mi dissero di lasciare la casa, non conoscevo nessuno, cominciai a girare per Darfo a chiedere se qualcuno affttava un appartamento, Moustafa intanto diventava sempre più violento, il suo intento era solo quello di far arrivare qui suo fratello e basta”. Maria non ha da mangiare, né per lei, né per il bimbo: “Cominciai a vendere le cose d’oro di mia nonna per riuscire a dare da mangiare al bimbo, soffriva di convulsioni, febbri alte, aveva bisogno di cure che costavano. Trovai un monolocale, ci trasferimmo lì ma Moustafa mi impediva di uscire, senza la sua autorizzazione non potevo mettere il naso fuori di casa, non ci dava da mangiare. Avevamo a disposizione una scatola di brioche a settimana e dovevamo farcela bastare. Mio fglio piangeva sempre perché aveva fame, io lo cullavo tutto il giorno per calmarlo, non avevo cibo e Moustafa ogni giorno mangiava al ristorante”. Maria rinuncia alla sua brioche quotidiana per darla a Mio fglio: “E se fnivamo la scatola prima di una settimana Moustafa urlava e urlava. Chiamavo mio padre e piangevo ma lui non voleva più saperne”. Stava scadendo il permesso di soggiorno a Moustafa: “E mi obbligò ad andare da Darfo a Firenze con un bambino malato con la febbre alta, in fla, in mezzo a una strada per rinnovarglielo, tornai alla sera sfnita. Dovetti fare il permesso anche per suo fratello, che venne qui”. Mio fglio sta sempre peggio e fnisce in ospedale: “A Breno, Esine non era ancora aperto”, Mio fglio è nutrito dall’ospedale ma Maria no: “Moustafa non mi comprava i buoni pasto, mi dava un succo di frutta al giorno e io ero sfnita dagli stenti, per una settimana mi nutrii con un succo di frutta al giorno, pesavo 38 kg, stavo male”. Mio fglio aveva 11 mesi. Torna a casa ma Maria sta male: “Cercammo un appartamentino in un’altra zona, lo trovai, avevo sempre emorragie, mi rivolsi all’Asl, avevo la spirale perché non volevo altri fgli, me la dovettero togliere, avevo un’infezione in corso”. Mio fglio intanto sta ancora male, troppi antibiotici gli provocano problemi intestinali, sangue nelle feci, ancora ospedale. Moustafa diventa sempre più cattivo: “Sberle, ceffoni, mi strappava i capelli, mi sputava in faccia, mi insultava, diceva che dovevo lavorare, voleva che mio padre ci aiutasse, io non ce la facevo più, ma mio fglio aveva bisogno di me, era sempre malato, non potevo reagire, Moustafa se ne fregava di me, di suo fglio, se ne andava in giro con gli amici, mangiava e beveva e noi morivamo di fame”. Moustafa se ne va in giro: “E probabilmente aveva anche un’altra donna”. Ma Maria doveva fare l’amore quando Moustafa voleva: “Dovevo fare l’amore quando lo voleva lui”, Maria rimane incinta: “Vomitavo sempre, ero debole, lui non voleva il bambino, mi picchiava, non avevo di che vestirmi, mi diceva di andare alla Caritas a prendere i vestiti, non potevo uscire di casa, parlavo dalla fnestra del piano terra dove abitavo con qualche vicina che impietosita mi lasciava qualcosa da mangiare sulla fnestra. Non pagava le bollette, me le buttava addosso a me, io e mio fglio eravamo denutriti”. Botte e niente cibo, Maria arriva al quarto mese di gravidanza: “La dottoressa Rossi di Lovere, la ginecologa mi ripeteva che non ce l’avrei fatta, che rischiavo la vita, che ero denutrita e mi faceva febo per salvare me e il bimbo”. Ma non basta, al culmine di un’ennesima litigata Maria perde il bimbo, era un maschietto: “Un forte spintone, botte e il bimbo era morto, emorragia”. Maria viene ricoverata, perde tanto sangue, Moustafa rimane a casa con Mio fglio ma si presenta in ospedale e dice a Maria che Mio fglio sta morendo, che ha 40 di febbre: “Non potevo uscire, rischiavo la vita, ero debole ma lui mi diceva di arrangiarmi che mio fglio stava morendo, aveva 3 anni, dovetti frmare perché come sempre lui si deflò e non si voleva prendere responsabilità nel caso mi fosse successo qualcosa”. Maria telefona ancora all’estero: “A mia madre che ritorna da me, stavo male, senza soldi e senza cibo, emorragie, interventi, pesavo 38 kg, Mia madre mi fa la spesa e mi riporta in Egitto, mi dice che 40 gioni là mi avrebbero rimesso in piedi. Parto, ho freddo, ho un’infezione in corso, Mio fglio ha febbre, ma laggiù un po’ recuperiamo, dovevamo fermarci 40 giorni ma dopo 20 giorni rientriamo perché Moustafa ci tempesta di telefonate”. Maria ritorna, Mio fglio va all’asilo ma sta sempre male: “Cominciamo a ricevere telefonate strane, mi picchia sempre di più, io cerco di darmi da fare, faccio un corso di informatica, lui non mi lascia uscire, devo fare l’amore quando vuole lui e rimango di nuovo incinta”. Ma la terza gravidanza va meglio delle altre: “Stavo bene ma lui decide di mandarmi in Egitto, vuole che io e Mio fglio ce ne andiamo in Egitto, ha un’altra donna e vuole liberarsi di noi per qualche giorno, dobbiamo partire, laggiù ci sono 40 gradi e Mio fglio si ammala di nuovo, rientriamo e sono di nuovo botte, la situazione peggiora. Mi strappava i capelli, mi riempiva di schiaff”. Maria tiene duro e il 10 novembre 1994 a Esine ancora col parto cesareo nasce Sara: “Era bellissima, è bellissima”, sorride fnalmente Maria e con lei sorride Sara che è seduta qui a fanco in redazione: “Rimango in ospedale una settimana, lì non si doveva pagare, mia mamma era arrivata e si occupava di Mio fglio, mamma rimane 40 giorni e mi aiuta, fnalmente torna anche mio padre, e porta ogni ben di Dio a Sara. Compra tutto lui, non avevamo niente”. Ma quando partono si scatena l’inferno: “Niente cibo, niente soldi, maltrattamenti, chiamo l’assistente sociale, non ho soldi per le bollette, lui non paga, mi mettono in lista d’attesa per un alloggio del Comune che però arriverà anni dopo, nel 1999”. Mio fglio comincia la scuola e Maria va a lavorare come lavapiatti il sabato e la domenica: “Appena rientravo mi chiedeva se mi avevano pagato e mi faceva dare tutti i soldi, mi urlava di tutto, che ero scema, che mi pagavano poco, mi picchia. Non ce la faccio più, reagisco e gli dico che voglio divorziare, di andarsene che l’afftto è intestato a me”. Moustafa schiuma di rabbia: “Comincia a picchiarmi, gli dico che vado dai carabinieri, mi prende per i capelli, mi trascina nella camera di Sara che dorme con me, mi prende in un angolo e mi mette le mani attorno al collo, non respiro, mi spinge il ginocchio sullo stomaco e mi blocca il respiro, la faccia bloccata contro il muro, sto soffocando, Sara si sveglia, ha 4 anni, vede la scena e urla, dice di lasciarmi stare, corre a chiamare Mio fglio che dorme, poi apre la fnestra e urla, Moustafa intanto mi alza da terra e mi sbatte con tutta la forza sul pavimento, sento la testa esplodere e non sento più la spalla, grida che vuole uccidermi, mi rialza e mi scaraventa di nuovo a terra, ancora più forte, perdo i sensi, non sento più nulla. Quando mi sveglio vedo sangue e non riesco a muovere la spalla, riesco però a prendere Sara e a correre in camera da letto, voleva tornare a picchiarmi, appena in tempo mi chiudo a chiave. Prendo antinfammatori dal comodino e li ingurgito, non so nemmeno quanti, dico a Sara di andare sul balcone della camera e prendere un bicchiere d’acqua. Grido a Moustafa di portarmi al Pronto Soccorso che sto male ma lui prende le chiavi dell’auto e scappa”. Maria rimane tutta notte con i suoi bambini, con la spalla rotta e sangue dappertutto: “Non potevo muovermi e non avevo il telefono, lui lo sapeva”. Al mattino la bimba va dal vicino di casa che fa telefonare Maria ad un’amica a Montecchio: “Le ho detto ‘Anna, aiutami se puoi’ e sono scoppiata a piangere’, l’amica viene e vado al pronto soccorso”. Lesioni ovunque, sospetta perforazione del polmone e frattura del capitello radiale. Maria dice basta: “Vado direttamente dai carabinieri e sporgo denuncia”. Chiede la separazione, siamo nel 2003: “Andiamo in tribunale che sentenzia che deve lasciare la casa”, ma Moustafa non se ne va. Anzi, peggiora e continua a maltrattare Maria e i fgli: “Urla che dovevo morire, maltratta Mio fglio e Sara, è un papà assente, non è mai andato a un colloquio. Io chiamavo i carabinieri ma lui non se ne andava. Continuava a picchiarmi, mi prendeva a sberle, mi strappava i vestiti di dosso, tutto davanti ai fgli”. Maria intanto trova lavoro prima come mediatore in ambito ospedaliero, poi all’uffcio immigrati: “Contratti a progetto. Cercavo di fare come se lui non ci fosse, dovevo crearmi un’autonomia fnanziaria ed economica”. Maria si mette in proprio e apre a Lovere, un negozio che dura 4 anni: “Voleva gli incassi, voleva tutto”. E comincia un altro dramma: “Comincia a picchiare Sara”. Sara è seduta vicino a Maria, mi guarda e comincia: “Io ho avuto una paresi al viso, sono stata curata con cortisone, ho avuto problemi, e lui mi strappava i capelli, mi picchiava, avevo lividi addosso e a scuola dicevo che ero scivolata dalle scale, andavo a scuola con i capelli tirati in fronte per non fare vedere che mi mancavano perché me li aveva strappati”. Sino a quella sera di settembre del 2012: “Ero stata invitata dai genitori di una mia amica a trascorrere un pomeriggio a Orio Center, sono andata con loro, era fne settimana e c’era traffco, sono arrivata a casa con un quarto d’ora di ritardo, sono entrata e ho capito che sarebbe successo il fnimondo, ho detto che mi scusavo e sono scappata in camera, ma lui mi ha seguito e con il tacco della sua ciabatta ha cominciato a pestarmi in faccia, proprio dove avevo avuto la paralisi, perdevo sangue e mi picchiava. Mia madre è corsa e si è messa in mezzo, mi ha fatto da scudo, mi sanguinava tutta la faccia, lui ha preso la mano di mia madre e l’ha girata, voleva spaccargliela. Non ce l’ho più fatta, c’era un accendino e una bombola di deodorante, l’ho presa e gli ho detto che se non lasciava mia madre gli avrei dato fuoco, tremavo, ero decisa, ero esasperata. Lui è uscito ed è corso nell’altra stanza a prendere il bastone, perché spesso mi picchiava anche col bastone, io e mia madre abbiamo chiuso la porta a chiave e siamo scappate dalla fnestra del piano terra, dove abitavamo da un anno a Lovere. Siamo corse in ospedale dove mi hanno riscontrato un colpo alla quarta vertebra del collo e altre lesioni. Volevano darmi il valium per calmarmi ma io non posso prendere medicine, ero tutta pesta, sono uscita e ho detto basta, sono andata dai carabinieri di Lovere e ho sporto denuncia, oramai ero maggiorenne”. Sara si affanca a Maria e grazie al maresciallo Obino ce la fanno: “Moustafa se ne è andato da casa a febbraio – continua Maria – il 18 di questo mese doveva esserci il processo per le violenze a Sara ma è stato rinviato al 24 settembre a Bergamo”. E adesso? “Adesso ripartiamo, ripartiamo dall’amore per la vita e in qualche modo ce la faremo. E vogliamo raccontare la nostra storia per chi come noi ha subito maltrattamenti, che non abbiano paura di reagire e di credere in un futuro migliore. E che tengano stretta la dignità. Noi donne sappiamo lottare con coraggio e orgoglio. E io e mia fglia Sara siamo qui a testimoniarlo”. Maria ce l’ha fatta, ha parlato per due ore e mezza, svuotata, come se le avessero tolto un macigno dal cuore, che adesso è libero, libero per Sara e per Mio fglio, e per quel pezzo di vita, che è ancora tanta, che ha davanti.
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