Morgan dall’incubo del licenziamento alla scossa del nuvo sogno americano

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    Morgan va di fretta, 30 anni da compiere giusto la vigilia di Natale, una passione per la fotografa e la grafica e le valige da preparare. Per partire. Non per una vacanza. Ma per una nuova vita. Destinazione Stati Uniti, il sogno americano. Da costruire, immaginare e soprattutto vivere. Morgan Marinoni è di Rovetta, e a ridosso delle vacanze estive è uno dei molti licenziati da una crisi che inghiotte tutto e tutti. Una ditta di grafica che gli comunica che al rientro dalle ferie non serve più, lui che va a casa, incassa, pensa e ripensa. E al mattino decide che si può fare, perché no? L’America non è poi così lontana, la passione per la fotografa gli farà da bastone e da amico quando serve. La sua ragazza, che fa la commessa a Orio Center, lo ascolta e decide che sì, la vita è anche e soprattutto quello, scelta, voglia, strada. “Tutto è cominciato in modo strano – racconta Morgan alle prese con documenti e valige – mio padre quando era un ragazzo faceva foto assieme a un suo amico, poi si sono persi di vista e qualche tempo fa si sono ritrovati grazie a facebook. Il suo amico nel frattempo si era trasferito a Washington e aveva aperto un negozio di parrucchiere, un negozio che viaggia molto bene, si era sposato e aveva messo su famiglia. Io intanto lavoravo ancora nella mia ditta. Mio padre gli ha raccontato della mia passione per la fotografa, il suo amico gli ha detto che mi avrebbe ospitato per una vacanza a Washington perché lì c’erano molte opportunità per chi ama la fotografa”. Morgan decide di andarci per due settimane durante la pausa di ferragosto, la ditta chiude: “E così mi ero programmato le ferie per gustarmi gli States, mica avevo pensato che il destino era lì dietro l’angolo”. Il giorno di chiusura infatti la ditta chiama Morgan e gli comunica che alla riapertura lui non ci sarebbe stato: “Licenziato su due piedi dopo cinque anni, non servivo più”. Morgan va a casa: “Non sapevo cosa fare, non volevo più nemmeno partire, da tempo cercavo di trovare un appartamento dove andare a vivere con la mia ragazza, ma dovevamo fare i conti con i soldi, due stipendi miseri ma comunque certi e a quel punto?”. Morgan decide di partire ugualmente per la sua vacanza: “Stacco qualche giorno e poi riparto”. In valigia la voglia di non pensare a niente e la sua inseparabile macchina fotografica. Morgan arriva in Virginia, a tre ore da Washington dove abita l’amico di suo padre: “E lì comincio a vedere il mondo in modo diverso. L’America con i suoi spazi, i suoi mille volti che disegnano anime sembra fatta apposta per la macchina fotografica”, Morgan comincia a scattare e scattare… guarda le foto e decide che si può fare. Girano in auto, vanno a New York, Washington, divorano le strade che sembrano poter inghiottire tutto e scattano, fermano su un’immagine sprazzi di vita, anime e corpi. Qualche giorno dopo nel negozio di parrucchiere arriva una cliente che lavora alla Work Bank e racconta di voler realizzare un book fotografico per immortalare tutti i servizi che la Banca fa a livello mondiale. L’amico del padre pensa a Morgan, le parla di lui, la cliente chiede di incontrarlo, guarda un po’ di sue foto e gli dà appuntamento per un colloquio di lavoro alla Work Bank. “Con l’inglese non me la cavavo gran bene – racconta Morgan – ho fatto il colloquio con uno spagnolo che traduceva in inglese. Mi hanno chiesto di preparare un progetto grafico per la loro Banca. Gli piace l’arte e la fantasia italiana, noi all’estero da quel punto di vista siamo una garanzia”. Morgan ci pensa e decide che si può fare. Rientra in Italia, ci pensa su e decide di ripartire, questa volta per sempre: “Ho preparato il mio progetto grafico che gli presenterò ma anche se non dovesse andar bene non importa, farò altro, qualsiasi altra cosa intanto ma cercherò comunque di far crescere il mio sogno, cercherò di giocarmi la mia opportunità”. Morgan racconta la sua America, quella che ha gustato per ora, per soli 18 giorni: “Girare New York e guardarla dal basso all’alto è una sensazione bellissima, tutto sembra immenso, tutto tranne io, il cielo una coperta che ti ripara da tutto e i grattacieli pezzi di ali che ti tengono attaccati al mondo ma che ti lanciano verso l’infinito. Sembra possibile tutto. Ho fatto un sacco di foto e adesso voglio bermi il mondo partendo da lì, forse il mio licenziamento è stata la cosa migliore. Altrimenti non avrei mai avuto il coraggio di lasciare il certo per l’incerto. Mi serviva una scossa”. Parti subito, in questi giorni, cosa ti dispiace lasciare? “I miei genitori, pochi amici che però avrò modo di sentire e rivedere quindi niente. Qui per i giovani non ci sono opportunità, non c’è niente. E poi dai, si chiude una porta e si apre un portone o almeno io la vedo così, sono un’inguaribile ottimista. Qui stavo diventando vecchio, tornavo dal lavoro, mangiavo, vedevo qualche amico e la mia ragazza e andavo a letto, tutto qui. Là la vita è altro, viaggi, è pieno di culture diverse che si mischiano, impari ad affrontare cose nuove ogni giorno. Sarà il mio punto di partenza, non è detto che vada bene ma sarà comunque la mia partenza”. E la ragazza? “Mi raggiungerà fra quattro mesi se intanto io mi sistemo. Fa la commessa all’Orio Center e farla qui o là è uguale, non ha nulla da perdere. Intanto si sta attrezzando e ha cominciato a studiare l’inglese. Proviamo a costruire la nostra vita altrove, non è detto che sia l’America, magari non va come deve andare e finisco in Spagna o da un’altra parte ma non in Italia, qui non c’è nulla. Vedo tanti amici miei, passano la domenica al bar, la sera a bere. No, preferisco andare. Il mio migliore amico sta per andarsene anche lui, va in Polonia, anche lui segue la passione per la fotografa, proviamo. E’ curioso il destino, io ci credo, avevo appena letto un libretto dove spiegava che per raggiungere un obiettivo bisogna essere felice, pensare positivo, e infatti stanno succedendo cose che sembrano segni: il mio licenziamento, la sorella della mia ragazza che è tornata a casa dopo anni che era via e lei che può partire con me, insomma sembra un disegno e io lascio che il destino disegni. E poi ci sono i sogni da bambino”. Cioè? “Sognavo di vedere il muro dei caduti del Vietnam, ci sono andato, sognavo l’America, ci vado. E la gente là è diversa, sono tutti più aperti, più uniti. Là poi non ti chiedono il nome e il cognome, non ti chiedono raccomandazioni, guardano se sai fare un lavoro e ti prendono, è tutto diverso. Qui vanno avanti i furbi, là quelli bravi. Adesso sto là 3 mesi perché è il tempo permesso per starci senza un lavoro e poi dovrei fare la green card che mi permette di prendere i documenti e regolarizzarmi e poi c’è l’unico problema che è quello di dover rimanere lì per un anno anche se succede qualcosa di grave a casa mia, non si può uscire dagli Stati Uniti per un anno, speriamo non succeda nulla in quell’anno”. Cosa ti ha colpito? “Mi aspettavo un’America più caotica, invece è sicurissima, anche troppo, dopo l’11 settembre è tutto blindato, si gira tranquilli, pensa che dove vado ad abitare la gente tiene aperta la porta sul retro di notte, e poi ci sono le contraddizioni tipicamente americane, gente che fa shopping in Times Square alle 4 del mattino, che divora hamburger pieni di salse e ingrassa come maiali. Ma l’America è così. Non hanno la cultura del cibo, per fortuna si trovano facilmente supermercati con cibo italiano, pasta e quant’altro e quindi mi arrangio. Ma la libertà dell’America è proprio quella, anche di ingrassare così, è il paese dove non ti vendono una birra in nessun negozio, nemmeno al supermercato se non mostri i documenti e non hai 18 anni ma poi a 18 anni ti puoi comprare una pistola senza problemi. E’ il paese dove puoi metterti in gioco sempre, ci vado per quello, per mettermi in gioco”. 18 giorni per sperimentare la vita americana: “Le feste nelle case tipicamente americane con giardinetto, tutte di legno, dove tutti mangiano troppo ma chi guida non beve. Dove l’aria condizionata è sempre troppo alta dappertutto, ce l’hanno tutti, perfino in chiesa. Dove la benzina non costa niente. Dove a Central Park incontri i clochard con il cellulare e il computer portatile, hanno scelto di vivere per strada ma sono ricchi. Dove trovi davvero però i poveri sdraiati dappertutto, contraddizioni e contraddizioni”. Morgan è pronto: “Sì, sono curioso e voglio partire. Mia madre piange ma in fondo è contenta, mi ha detto che quando mi sistemo mi raggiunge con papà e vanno a farsi il coast to coast con l’harley Davidson, il loro sogno. Vediamo. Sono curioso, timoroso ma felice. A 30 anni inizia la vita, credo sia l’età giusta, a 18 troppo giovane, adesso ci siamo”. Morgan sorride: “Pensa che il mio migliore amico mi ha regalato una biro con una bussola dicendomi che per qualsiasi tipo di problema basta guardare la bussola che indica dove è lui e lui ci sarà sempre, per me sono queste le garanzie, il resto sono solo barriere fisiche che passano”. Dici che l’America è contraddizione, ma le contraddizioni non ti fanno paura? “No, le contraddizioni sono vita, là ci sono regole ferree, non puoi sgarrare, e poi magari li vedi in giro alle 4 di notte a far shopping. Ho conosciuto ragazzi alle feste che magari andavano a letto alle 4 ma al mattino alle 8 erano pronti in giacca e cravatta per andare a messa e guai a saltarla. E poi ho capito come mai vedevo gli americani in tv sempre con la bottiglietta d’acqua, mi sono fatto ore di auto per girare i quartieri, le distanze sono immense. E dopo un po’ sei scoppiato, l’acqua serve”. Quando parti? “Il 16 settembre. Da quel giorno sarò il capo di me stesso e non è detto che riesca a essere un buon capo, la mattina dovrò imparare ad alzarmi dal letto e portare a casa la pagnotta, devo cercarmi un lavoro e tenerlo, ci provo. Anche perché i luoghi comuni esistono anche là, molti mi hanno fatto le solite battute ‘italiani pizza e mafa’ proviamo a far vedere qualcosa d’altro”. Il viaggio comincia.

    «CERCO LAVORO, NON CE LA FACCIO PIÙ E MI MANCANO TRE ANNI ALLA PENSIONE. I POLITICI DICONO: “Apriremo un tavolo”. Ma sono tutti tavoli senza… sedie»

    Un cartello lungo la strada che scorre come un budello lungo la valle Seriana, e che si infila tra capannoni chiusi e fabbriche con le saracinesche abbassate. Il grido si trasforma in pennarello su un grande cartellone: “Cerco 1 lavoro” e sotto un numero di cellulare. La speranza e la disperazione di Fabio Pedroli, 56 anni di Ponte Nossa è tutta in quelle due parole e in quel numero in mezzo. Che qualcuno chiami e alla svelta: “Perché così non ce la faccio più”. Una moglie, che ha perso il lavoro due anni fa, una figlia sposata con un bambino piccolo che vive fuori casa e l’agognato traguardo della pensione che dista ancora tre anni, in mezzo una strada di punti di domande, speranze e paure. “Lavoravo nel settore tessile – racconta Fabio – ma la crisi stava venendo avanti sempre più forte così ho pensato di anticipare il licenziamento, me ne sono venuto via e ho cercato lavoro tramite un’agenzia, ho trovato un lavoro interinale, sei mesi rinnovabili e ci sono stato un anno, terminato l’anno basta, più niente. Adesso sono a casa. Mi hanno lasciato a piedi. E mancano 3 anni alla pensione. E quando rimani a casa da lavori come quello non hai diritto né a cassa integrazione, né a nient’altro”. Fabio che nel settore tessile c’era da una vita: “E la crisi si sapeva che sarebbe arrivata già dagli anni ’80, il tessile è il settore che nasce per primo nei paesi sottosviluppati ma è anche il primo che muore. E’ successo anche da noi subito dopo la guerra, gli investimenti sono relativi e durano nel tempo, si può sfruttare la manodopera e la tecnologia non costa molto e le donne possono lavorare. E questa zona avendo puntato tutto sul tessile doveva capire che prima o poi sarebbero arrivati altri paesi a fare lo stesso ragionamento e invece non ci ha pensato nessuno. Qui tutti sono legati al tessile, o per l’indotto o per il meccano tessile, i figli di ex dipendenti del settore avevano aperto piccole aziendine con qualche telaio e via di questo passo e adesso c’è stato l’effetto domino, saltato uno, saltati tutti”. Anche Fabio: “Ma non ci sto, non può finire tutto così, non so cosa smuoverà il mio cartello ma io voglio muovere le acque, far sapere quello che succede qui nelle valli, nessuno dice niente. Giro tutti i giorni per cercare un lavoro, qualsiasi lavoro, e va beh, dicono che la pubblicità è l’anima del commercio e allora io con quel cartello ho voluto provare a fare marketing di me stesso, che almeno se ne parli e si sappia come stiamo qui, in quella che era considerata una valle ricchissima”. Fabio è disoccupato dal 2 agosto: “E cerco qualsiasi lavoro che mi garantisca di arrivare alla pensione, non importa quale. E mi faccia lanciare un appello, se mi assumono, essendo disoccupato non devono nemmeno pagare i contributi per due anni”. Fabio se la prende con gli amministratori e i politici: “Bla, bla, bla, qui sanno parlate solo di ‘tavoli programmatici’, se io avessi tutti i tavoli che hanno annunciato e li venderei sarei apposto. Anche ieri sul giornale c’era scritto ‘apriremo un tavolo…’, siamo alle solite, tutti tavoli senza sedie”. E adesso com’è la sua giornata? “Andare a 56 anni a cercare un lavoro è una cosa bruttissima, non la auguro a nessuno, è brutto a 20 anni cercare lavoro ma a 56 è umiliante. Ne sto sentendo di tutti i colori in questi giorni girando le aziende, ho imparato a capire lo sguardo e i modi delle persone, sto imparando tante cose. Anche adesso, prima di venire qui sono entrato nella segheria che c’è qua sotto, ci provo, ci provo sempre. Non scelgo un lavoro, mi va bene tutto, ho bisogno di soldi e d’altronde si parla tanto di far girare l’economia ma se non ci sono i soldi da spendere come si fa? volevo cambiare la tv ma a questo punto se si rompe non so nemmeno se sono in grado di aggiustarla”. Fabio continua: “Si parla solo di turismo e turismo, investire, ma dove vogliono investire se non ci sono i soldi? stiamo morendo tutti, non c’è niente e qui ci si sciacqua la bocca promettendo mari e monti. La devono smettere di mentire alla gente”. Cosa hanno detto a casa della sua protesta? “Ho quasi divorziato da mia moglie per quel cartello, non voleva, mi ha detto che dobbiamo essere dignitosi, ma io sono dignitoso, voglio solo lavorare, non chiedo l’elemosina”. Quando ha cominciato a lavorare? “Nel 1972, poi nell’82 hanno chiuso la Cantoni e li qualcosa si poteva cominciare a intravedere, ruotavamo lavorando sei ore, qualcosa cominciava scricchiolare, si facevano più prodotti ma poi bisogna anche venderli. La crisi poi è tutta da analizzare, per qualcuno è una sciagura, per qualcun altro è una fonte di guadagno, e comunque le crisi ci sono sempre state e ci saranno sempre, d’altronde se abbiamo portato i macchinari in Cina e gli abbiamo insegnato a lavorare era ovvio che ci avrebbero schiacciato. Qui nessuno fa niente, bisognava pensare a riqualificare la manodopera, a imparare nuovi mestieri, macchè, abbiamo aspettato che tutto ci crollasse addosso. E poi ci sono settori e settori, pensa ai ristoranti”. Cioè? “Da quando c’è l’euro il ristoratore la sera si trova dentro il doppio dei soldi in cassa, ha licenziato i camerieri perché c’è meno gente ma tutto costa il doppio, risparmia sui camerieri e incassa come prima”. I suoi ex colleghi cosa le hanno detto? “Bocca cucita, qui tutti hanno paura e pensano a tenersi il loro orticello”. Perché se ne è andato dal tessile? “Si lavorava poco, negli ultimi tempi mi facevano pitturare le porte o sistemare quello che c’era, così ho pensato di cercarmi un lavoro tramite l’agenzia e ho trovato un posto da manutentore meccanico, e alla fine mi sono ritrovato disoccupato. La mia rabbia è che nessuno dice niente, i disoccupati non fanno notizia, silenzio, io adesso vivo con il sussidio che è irrisorio e non dovrebbe essere chiamato sussidio, è quella la vera elemosina. Mi piacerebbe un giorno vedere sul giornale la notizia ‘assunti operai’, dare buone notizie, muovere le cose. Spacciano posti di lavoro che non sono tali, ho visto su un giornale le foto di un insediamento produttivo nella bassa, ma sono solo costruzioni di capannoni e dicono già che sono centinaia di posti di lavoro, lo stesso discorso per il kilometro verde a Nossa, ma dov’è il lavoro? Mia moglie mi ha detto ‘vedo in giro tanta gente a Nossa che prima non vedevo’, per forza, sono disoccupati e allora vanno a fare il giretto in paese”. Fabio una soluzione in testa ce l’ha: “E sai qual è? si chiama ipermercato. Ha un vantaggio notevole, ti assumono tante persone a 4 ore, meglio avere tante persone con 400 euro in tasca che nessuna persona a zero euro, e non è vero che chiuderebbero le botteghe, ognuno ha il suo settore. E i prezzi si abbasserebbero, io adesso prima di comprare qualcosa giro per ore, devo stare attento a ogni prezzo”. E sua moglie come ha perso il lavoro? “Lavorava nella mensa di una ditta tessile che ha chiuso ed è rimasta a casa”. A cosa rinuncia? E’ andato in vacanza? “No, non ci sono andato, prima ogni tanto ci andavo. Mi sono concesso una giornata in moto e l’ho chiamata vacanza. Avevo intenzione di cambiare la tv e mettere il digitale terrestre, e invece niente da fare, non sono ancora con la canna del gas, diciamo che ho la bombola del gas sulle spalle ed è ancora carica ma prima o poi fnirà anche quella. E sapete perché si parla poco di chi perde il lavoro? perché è tutto studiato, la cassa integrazione allunga i tempi e a poco a poco tutto finisce nel dimenticatoio, così quando poi scatta il vero licenziamento ormai non ne parla più nessuno”. Però gli operai non scendono in piazza, non protestano, sembra ci sia una sorta di rassegnazione o paura, che negli anni passati non c’era: “Qui è passato il concetto della mentalità bergamasca, che a noi interessa solo lavorare, i politici si fanno vedere solo quando c’è da prendere voti e poi leggo Bossi che dice che siamo pronti a prendere il fucile e ad andare a Roma, ma Bossi si chiede se i bergamaschi hanno ancora i soldi per comprare lo scopo e andare a Roma con lui? Dovrebbe chiederselo.