Un mondo che è alla ricerca dell’eternità, che vuole rimuovere la morte, che quindi non pensa minimamente all’aldilà, che vuole un “hic et nunc” pieno di gratificazioni, che cerca la felicità pur avendo smarrito il senso dell’orientamento etico e dei perché del vivere insieme. Come già il Natale, popolato di figure alternative (Babbo Natale) a quelle cristiane, anche la Pasqua è festeggiata. Ma poco celebrata. Un tempo i riti, le atmosfere della Quaresima e della Settimana Santa portavano lentamente, anche con la spogliazione fisica degli altari, alla liberazione dell’exsultet. Il ricordo della morte di Gesù sulla croce è quasi “storicizzato”, la resurrezione ignorata. Mons. Francesco Beschi è Vescovo di Bergamo da un anno. Un vescovo, di quelli che viaggiano, incontrano, parlano, ascoltano. E allora gli abbiamo chiesto di raccontarci la Pasqua. E’ un sabato di fine marzo, mezzogiorno, Mons. Beschi ci racconta la sua Pasqua, la nostra Pasqua, la sua chiesa, la nostra chiesa. Quella che è stata, quella che è e quella che potrebbe essere. Gesù non è morto nel suo letto Eccellenza, volevo cominciare ripassando con lei i… fondamentali della Pasqua. Perché la Pasqua è la festa più importante per un cristiano? “La Pasqua è il cuore della fede di un cristiano. Per un cristiano Gesù non è soltanto un uomo, non è soltanto un grande profeta, non è soltanto un maestro di morale, per il cristiano Gesù è il Figlio di Dio fatto uomo che conduce alla speranza, al riscatto della storia del mondo dal male, dal peccato, dalla morte entrandoci dentro sin in fondo. Il Figlio di Dio opera con la salvezza dell’uomo entrando nelle oscurità più grandi dell’uomo. Lui non muore in un letto, ma sulla croce!”. Che poi la croce era il patibolo più infamante, i cittadini romani venivano decapitati, gli schiavi crocifssi, per gli ebrei era un segno di maledizione da tutto e da tutti: “Sì e lui va in croce proprio per questo, toglie il peccato del mondo per portarselo addosso tutto da solo, il gesto più grande, immenso”. Pasqua della redenzione, che quindi ci fa ripartire da capo, azzerando il nostro peccato originale. “Noi nella storia siamo tentati di pensare che l’ultima parola ce l’abbia la morte. Quante volte a fronte di notizie ed eventi dobbiamo rassegnarci al male o pensiamo di rassegnarci al male. La morte e la resurrezione di Gesù ribaltano tutto. Questa nuova vita viene comunicata a chi crede in lui, viene inserita nella storia la radice della speranza. Questo è sconvolgentemente bello”. Resurrezione della carne Nei primi secoli della Chiesa, specialmente in quella orientale, si distinguevano due Pasque, quella della crocifissione e quella della resurrezione, una sorta di “prima chiudiamo col passato e adesso ripartiamo”. Il bisogno di resurrezione è qualcosa di aggiuntivo rispetto alla redenzione… “Noi non crediamo semplicemente nell’immortalità “E’ necessario che i cristiani testimonino una fede che rende bella già questa, di vita. Il vicariato deve entrare nella dimensione della missionarietà, ci deve essere una condivisione tra preti e laici del luogo” dell’anima. Cristo risorto sta a dire che è proprio lui, anche se è un uomo nuovo. Non c’è croce senza resurrezione, non c’è resurrezione senza croce”. Quella cattolica è l’unica religione che dice che risorgeremo non solo come spirito ma anche come carne, col corpo. “Ma un corpo nuovo. San Paolo a questo proposito usa una bellissima espressione, dice ‘si semina un chicco di grano e ne viene fuori qualcosa di nuovo’. Tu metti nella terra un seme e crescerà qualcosa di diverso da quel seme”. Qualcosa di nuovo, quindi sono inopportune le solite ironie di chi si chiede se di là si risorgerà col corpo di quando si era giovani o con quello di quando si è morti. “Già, saremo qualcosa di nuovo”. In terra immortalità disperata La nostra società ha il culto del corpo e la ricerca dell’eternità del corpo in terra, il prolungamento della vita terrena. In questo senso si è ribaltato il concetto e l’aspettativa, non si aspetta più nessuno, l’unica vita è questa, non c’è bisogno di Dio, la medicina punta a farci vivere in eterno, quindi chi la spunta sugli altri è Dio. Come fa la Chiesa, che ha la sua ricetta di eternità, ma nell’aldilà, a contrastare questa tendenza e speranza corporale? “Ricordo che Indro Montanelli, che faceva un po’ fatica a dirsi credente, diceva: ‘l’immortalità mi spaventa’, immaginandosi che dovessimo magari starcene seduti a guardare Dio per tutta l’eternità, che sarebbe diventato un po’ noioso, con tutto il rispetto. Ma queste sono le nostre immagini di eternità. Cristo risorto ci prospetta invece una vita viva, tutto ciò che di bello abbiamo già sperimentato viene recuperato, e questo sarà il gusto dell’eternità. Non basta allungare gli anni se siamo privi di relazioni d’amore. Un uomo eterno che vivesse in una solitudine radicale, vivrebbe un’immortalità disperata”. L’inferno se lo crea l’uomo I ‘Novissimi’ valgono ancora? “Valgono molto e a me piacciono molto”. I ‘Novissimi’ parlano di Morte, Giudizio, Inferno e Paradiso… “Sì, restano gli stessi, anche se il linguaggio deve essere capace di interloquire con l’uomo contemporaneo. Ma soprattutto rappresentano un orizzonte di speranza”. Sì, ma esiste l’inferno o, come dice De Andrè, esiste per chi ne ha paura? “Esiste per chi ne ha paura ed esiste come segno di questa libertà dell’uomo che è capace anche di mandare se stesso all’inferno. Noi oggi possiamo creare il nostro inferno con le nostre mani. Non sarà un Dio giudice tremendo che ci manda all’inferno. Il giudizio finale è un momento in cui ciascuno vedrà la verità di se stesso e già quello potrebbe essere un momento infernale. La fede ci rende persone che, pur sperimentando il male, non si disperano, perché poi c’è il riscatto”. La chiesa cattolica ha la risposta più soddisfacente, “la risposta” alla domanda (sopita) fondamentale, anima e corpo possono risorgere? Moriremo ma torneremo a vivere. La morte non è la fne di tutto, è solo un passaggio, è una Pasqua (passaggio). Perché non “passa” questo messaggio? Viviamo come se dovessimo vivere eternamente qui sulla terra, arraffando, azzuffandoci… “Ci sono due problemi, il primo riguarda la comunicazione, è chiaro che oggi il mondo è cambiato, per tante ragioni, quindi anche il modo di comunicare il vangelo è necessario che cambi, per essere intercettato da un uomo che non è più il contadino. Un uomo come mio nonno, che era un contadino, viveva in un mondo tutto legato alla fede, dobbiamo trovare quindi quel linguaggio che non è solo fatto di parole ma anche di un modo di pensare dell’uomo contemporaneo, per poter dire a lui il Vangelo. Il secondo motivo è la testimonianza di vita. Ai giovani, ai vecchi, agli atei… a tutti interessa la vita, è necessario che i cristiani testimonino una fede che rende bella già questa, di vita, non una ‘bella vita’, ma una vita bella, meritevole di essere vissuta, oggi”. Quindi non più una valle di lacrime, sopportate tutto che poi di là cambierà tutto. Ma anche qui, dovete cambiare. “Sì, io penso che oggi sia questo il messaggio che dobbiamo comunicare”. Cieli vecchi, linguaggio nuovo Lei dice, è il linguaggio che deve cambiare. Però il linguaggio passa attraverso i mezzi, e voi li avete, la tradizionale omelia, che recentemente è stata oggetto di polemiche, ricordo negli anni ’60 la rivoluzione nel linguaggio dei parroci, dove sono nati terminologie come ‘camminiamo insieme’ e altri modi di esprimersi che oggi sembrano oggettivamente datati, ma vengono riproposti… non si riesce a trovare un altro linguaggio? Una volta in Seminario si insegnava predicare. Adesso bisogna insegnare un linguaggio per adeguarvi ai mezzi che avete, la tv, la radio, il giornale, i periodici, mezzi che la Curia di Bergamo ha in abbondanza. Non c’è un’urgenza di ricerca del linguaggio adeguato? “E’ vero, molto, secondo me, dipende dall’ascoltare le persone: noi riusciremo a parlare un linguaggio che la gente riesce a capire nella misura in cui oggi ascoltiamo le persone. Esempio, i giovani oggi hanno un linguaggio diverso anche solo rispetto ai loro genitori, quindi ci vogliono ore di paziente ascolto per poi riuscire a dire anche solo una parola che venga intercettata da loro. Bisogna far emergere la parola”. Come incontrare le loro domande? “In primo luogo bisogna far emergere quella domanda. Il vangelo è una fucina di domande. Gesù era capace di suscitare grandi domande, e uno dei pericoli dell’ateismo pratico, non quello teorico, ma pratico, è di perdere il gusto delle domande importanti”. Non è che queste domande che ognuno di noi ha dentro, non vengano più recepite in quanto soffocate da tanti messaggi, dal frastuono… Il Vangelo, sta scritto, dovrebbe essere gridato dai tetti. La chiesa a volte sembra parli sottovoce. “Sì, il Vangelo dev’essere gridato dai tetti. Ma dall’altra parte a me sembra che noi sacerdoti siamo in una condizione umanamente e cristianamente felice, perché siamo nella condizione e possibilità di accogliere veramente le persone, e quando succede, le persone si manifestano con la profondità delle domande”. La solitudine dei parroci Un parroco ci ha confessato la solitudine sul suo territorio, quasi un senso di inutilità, ha detto che se per provocazione dovesse anche raccontare una cosa blasfema in predica non verrebbe nemmeno avvertita dalla gente, non riesce a rompere l’impermeabilità tra lui e loro. Quasi che i nuovi preti vengano mandati al massacro, quasi che non siano stati preparati ad entrare in contatto con la gente che c’è in chiesa, che è lì, ma parla in modo diverso, sta pensando ad altro: “Bisogna mettere in conto, anche nella comunità, ostilità e incomprensione, che non sono un incidente di percorso, ma fa parte dell’esperienza cristiana. Noi qui non possiamo dire di essere perseguitati fisicamente come avviene ad altri cristiani, ma c’è effettivamente il problema dell’indifferenza anche di chi vive la comunità, ma non percepisce quello che è l’essenziale della vita comunitaria, la fede e questo per un pastore, per una guida, è una sofferenza”. Nella decisione di mandare in un posto un prete piuttosto che un altro un tempo ci si permetteva il lusso di tener conto delle sue potenzialità di prete, facendogli fare esperienza, quasi quella parrocchia, quei parrocchiani dovessero fare da cavia, per future esperienze di quel prete. Oggi succede il contrario, è il territorio che richiederebbe un prete che abbia conoscenza della gente che vi abita per arrivare dritto al cuore di chi ascolta. “Le attese nei confronti dei preti, io dico per fortuna, sono ancora elevatissime, un segno che deve far riflettere nel mondo dei credenti, però a volte queste divengono forse troppo esigenti e così si vivono autentiche diffcoltà. Deve esserci una maggiore condivisione della passione evangelica con i laici nel rispetto del ruolo di ciascuno per affrontare i problemi del nostro tempo”. Scelte catacombali Sta pensando ai laici, o soprattutto ai diaconi? “Sì, sto pensando ai diaconi, all’introduzione della figura dei diaconi permanenti che qui sono ancora pochi, mentre a Brescia, dov’ero prima erano veramente tanti. Ma sto pensando anche a ridare un ruolo alla fgura dei laici ma non perché vogliamo clericalizzarli, ma perché il Signore li chiama a seguire la vocazione di prendere sul serio la storia del mondo, la famiglia, il lavoro, la società, la comunità e noi preti siamo al servizio di quella vocazione”. Un altro pericolo della Chiesa è che i parroci facciano una scelta catacombale, riunendo attorno a sé un gruppo di persone che vengono in chiesa, lasciando perdere le cosiddette pecorelle smarrite, e così ci si trova con chiese semivuote, con gente che non ha forse nemmeno la percezione del peccato e ci si rivolge soltanto a un gruppo di persone, con i giovani persi in altri rivoli di vita, totalmente estranea a quella parrocchiale. “Sì, il rischio c’è, la strada che intendiamo seguire è quella di una parrocchia missionaria, non si può più star qui ad attendere dopo aver suonato la campana che arrivi la gente”. Gli oratori C’è stata la politica sugli oratori, mentre a Milano un monsignore ci ha detto che si va verso una scelta di riduzione, la Chiesa di Bergamo ha fatto invece la scelta di recuperare tutti gli oratori col rischio che in alcuni paesi sembrino gigantesche cattedrali nel deserto e di quello che doveva essere il contenuto poco o nulla, affidati a donne di buona volontà o gestori improvvisati. Si fa fatica a trasmettere il valore essenziale che sia diverso da quello di una sala giochi. “Il prossimo decennio ci vedrà impegnati sulla ‘educazione’, è vero, una struttura di mura non basta. Il vescovo Amadei diceva di incentivare, accogliere come un dono prezioso l’educatore: dobbiamo lavorare su questo, dobbiamo formare educatori, non possono essere solo preti o curati, ci vogliono educatori preparati”. I Vicariati I vicariati vanno ristrutturati e potenziati per non lasciare un prete o una parrocchia da soli, penso soprattutto ai preti di montagna, per cercare omogeneità o sono sovrastrutture datate? “Ho visitato tutti e 28 i vicariati e quando ho finito la visita mi sono accorto del limite di questa visita, ho incontrato solo i preti, così adesso ho ricominciato il giro e dei 28 sono stato già nel vicariato di Ardesio Gromo e di San Giovanni Bianco. In questa seconda visita ho cambiato programma, sto una giornata intera, al mattino incontro i sacerdoti, al pomeriggio le udienze personali e la sera ascolto la voce dei laici. Il vicariato deve entrare nella dimensione della missionarietà, ci deve essere una condivisione tra preti e laici del luogo”. Lei da subito si è mosso sul territorio, il paese ruota attorno a una chiesa ma anche a gente che resta fuori dalla chiesa, molta, tanta gente resta esclusa da questi incontri. Lei è come un generale che va a far vista alle linee in trincea, come ha trovato i suoi soldati? Sfiniti, feriti, rassegnati, morti, vivi? “L’importante è farli sentire vicini, qualche volta la stanchezza, ma non solo quella fisica, c’è, la delusione può coinvolgere, la vicinanza di un vescovo non risolve i problemi, ma mettersi assieme e guardare le motivazioni fondamentali del nostro lavoro, la disponibilità verso il Signore è molto forte, non nascondo che poi nelle vicende personali ognuno possa vivere qualche problema, io cerco di essere vicino a tutti”. Celibato e le donne Celibato. Nei giorni scorsi un prelato ha lasciato intendere che si potrebbe rivedere, che in fondo il celibato è una derivazione istituita nel corso della storia, all’inizio non era un obbligo: “Sì, d’altronde qualche apostolo era sposato, nel corso dei primi secoli non c’era alcuna disposizione e in altre chiese cristiane è prevista la possibilità del matrimonio, la grande chiesa ortodossa prevede questa duplice possibilità. Nella chiesa cattolica il celibato è vissuto come un dono e un impegno”. Sul ruolo della donna nella Chiesa? “La figura della donna è importantissima nella Chiesa, io credo possano essere affidati alla donna alcuni ruoli di responsabilità (non sto pensando al sacerdozio ma a ruoli di maggior responsabilità sì)”. L’Exsultet del sabato santo che fa da chiusura tra la passione e la morte e annuncia la resurrezione, sembra un po’ imbalsamato, cantato in tono minore. Ma è un grido e c’è bisogno di questo grido. “E’ vero, nella notte di Pasqua c’è bisogno di questo grido. E poi il testo è bellissimo, come dice lei dovrebbe scuotere, un grido che squarcia la notte, un grido esistenziale, coloro che credono lo gridino nel mondo”. Il gregoriano La musica, lei è un grande appassionato e musicista, il gregoriano, per un malinteso senso di rinnovamento, dopo il Concilio Vaticano II, è sparito, sono nati canti sostitutivi, alcuni sembrano banali sia come composizione che come valore artistico. Il recupero del gregoriano è possibile, nel rito? “Come sempre anche nella musica nel corso dei decenni sono state scritte cose belle e alcune assolutamente banali, al di là di questo il gregoriano appartiene alla tradizione viva della liturgia della chiesa. Papa Paolo VI, bresciano, dopo il Concilio chiese che in ogni Diocesi si celebrasse una messa in latino per custodire e mantenere la grande tradizione del gregoriano. Io questa esperienza l’ho vissuta per tanti anni quando ero curato della cattedrale di Brescia, si celebrava la messa delle 11.00 in latino con il Gregoriano. Non si tratta di recuperare un cimelio storico, ma di coltivare una tradizione viva collocandola opportunamente”. E qui vengono in mente le distorsioni anche comiche di certo latino gorgheggiato coralmente in chiesa da fedeli che un tempo faticavano già con l’italiano. Ma credevano, sapevano cos’era la Pasqua, coglievano il valore del mistero e del rito. Meglio dell’indifferenza di cui parlava il Vescovo all’inizio della nostra conversazione. Buona Pasqua, Eccellenza, ma davvero. “Grazie, anche a lei, di cuore”.
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