PREMOLO  – LUIGI DA POLENZA Sopravvissuto alla Sacca del Don La ritirata di Russia attaccato alla coda monca di un mulo. Prigioniero a Buchenwald da dove fuggì  

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    A DESTRA LUIGI DA POLENZA, IN MEZZO EMANUELE BANA, DURANTE LA GUERRA – vietata la riproduzione
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    PREMOLO – LUIGI DA POLENZA

    Sopravvissuto alla Sacca del Don La ritirata di Russia attaccato alla coda monca di un mulo. Prigioniero a Buchenwald da dove fuggì  

    Enula Bassanelli

    Non è partito subito per la guerra, quando è stato chiamato alle armi era ormai un giovanotto con la testa sulle spalle, che si è trovato ad avere a che fare con soldati molto più giovani di lui. Prima di partire faceva lo stradino, dipendente del comune di Premolo Ponte Nossa, e ai quei tempi non ci si occupava solo delle strade del paese, ma si andava anche più lontano, sulle montagne, nei pascoli alti, a controllare e segnare i confini del paese. Ma non divaghiamo.

     

    Luigi Da Polenza – La ritirata di Russia – Vietata La Riproduzione

    Luigi Da Polenza fa parte della classe 1911, il suo bisnonno, forse bresciano, si era trasferito a Premolo nel secolo XIX perché qui faceva il maestro. Luigi abitava in centro, alla Ranga; aveva due sorelle, una più grande e una più piccola; la più piccola, Anita, aveva la sindrome di down, era bella e molto simpatica, conosciuta e benvoluta da tutti in paese. Essendo l’unico figlio maschio, non aveva nemmeno svolto il servizio di leva, ma la guerra ha chiamato anche lui, quando aveva 29 anni, affascinante e non ancora maritato, che aveva ben altre aspettative e ben altri sogni per il suo futuro più vicino.

    Adesso Luigi non c’è più, è venuto a mancare nel 1995, e il suo ricordo è nel cuore dei suoi due figli, Dario e Giuseppe. Luigi non amava parlare degli anni della guerra, ma se incalzato dalle domande dei figli rispondeva.

    Noi siamo andati dal signor Dario e ci siamo fatti raccontare alcuni episodi che riguardano il padre, a proposito del conflitto mondiale e non solo: la sofferenza dei soldati, la ritirata di Russia e i campi di prigionia. Ma anche la gioia del ritorno a casa, i momenti di allegria insieme ai suoi figli, e la grande amicizia stretta con un soldato triestino.

    «Era uno dei soldati più vecchi con i suoi 30 anni, un veterano, aveva due dita di testa più degli altri, perché i giovani purtroppo facevano delle cose che gli anziani non facevano, uno ad esempio aveva trovato una pagnotta e l’aveva mangiata in una volta sola per la troppa fame, e la mattina seguente l’avevano trovato morto. I più giovani non riuscivano a capire che bisognava mangiarne un solo pezzetto dato che lo stomaco non era in grado di assimilare tutto.

    Di vodka si poteva berne al massimo un paio di bicchieri perché poi si moriva. Certe cose i vecchi le capivano, lui capiva». La ‘sua’ guerra inizia nel ’40 quando da Foggia sale sull’aereo per l’Albania: «Per andar giù avevano preso un apparecchio, stavano tutti male da morire, caricati come le formiche in un formicaio, era un aereo senza salvagente, senza niente. Gli avevano dato dei cordoni con dei tappi di sughero da usare come salvagenti». Dall’Albania va in Grecia: «È stato in prima linea su una montagna greca, era una carneficina in mezzo alla neve».

    Un mese di licenza a casa e poi la Russia: «I russi e i tedeschi almeno avevano degli indumenti pesanti, gli italiani non erano equipaggiati». La vita dei soldati era appesa a un filo: «Un giorno erano lui e mi sembra uno di Clusone, c’erano delle macerie, delle case abbandonate, diroccate per le granate. Hanno accesso il fuoco, hanno fatto scaldare due patate, mangiato qualche cosa, poi sono arrivati altri soldati italiani che hanno chiesto di poter prendere il loro posto vicino al fuoco, sempre per scaldarsi e mangiare. Si sono quindi spostati di 50 metri dietro un muretto dove si sono addormentati. Si sentivano delle granate, si sono alzati la mattina e quelli al fuoco erano tutti e tre morti, una granata li aveva presi in pieno».

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    EMANUELE BANA, DURANTE LA GUERRA – La ritirata di Russia – vietata la riproduzione

    Luigi e i suoi compagni si sono spinti fino al Don e poi è cominciata la ritirata: «Nella ritirata era insieme a un altro premolese, Emanuele Bana, e a uno di Gorno, lo chiamavano ol Söch. Mi aveva detto che si era incontrato anche con tuo nonno (della scrivente, nda) Giuseppe Bassanelli mentre stavano cercando di venire a casa. Aveva incontrato anche un fratello di mia mamma, insomma, il suo futuro cognato».

    La steppa era piena di morti: «C’erano buche con animali, persone in fin di vita, gli dicevano di dargli una fucilata, ma non li guardavano e andavano avanti perché di coraggio non ne avevano, ed era impossibile caricarsi una di quelle persone sulle spalle». Ma i due premolesi sono usciti vivi dalla ritirata: «Avevano preso un mulo che stava ancora in piedi, Emanuele, che aveva problemi di congelamento ad un piede era salito in groppa all’animale, e mio papà diceva che forse era stato anche un male da una parte perché la circolazione delle gambe ne aveva risentito». Emanuele sul mulo, Luigi attaccato alla coda monca dell’animale, asportata per metà da una scheggia di una bomba.

    «Diceva che i russi erano brave come persone, se potevano darti appena qualcosa te la davano. Gli italiani erano lì con i tedeschi, ma si sapeva che erano i tedeschi ad avere il cuore duro. Non si era mai lamentato dei russi, due patate, un po’ di verza, quello che riuscivano a dargli glielo davano, erano gente alla buona, i russi erano l’opposto dei tedeschi». La ritirata di Russia

    Dopo l’armistizio dell’8 settembre ’43 fra le truppe regnava il caos: «Non ricevevano più ordini dallo stato maggiore, quel giorno si trovavano a Vipiteno, sono stati disarmati, quando hanno capito che sarebbero stati catturati dai tedeschi hanno provato a scappare ma sono stati presi». Viene caricato su un vagone e deportato a Buchenwald: «È stato fatto prigioniero. Diceva che la fame che ha visto in quel periodo lì era una cosa… non c’era proprio niente da mangiare, li facevano uscire alle 6 di sera per andare a lavorare in una fabbrica, un’ora o due di cammino al giorno per andare, accompagnati dalle guardie, 12 ore di lavoro in fabbrica, finivano alle 6 del mattino.

    Davano un po’ di caffè alla fine del lavoro e quando tornavano nel campo trovavano sulla branda un tozzo di pane e qualcosa così assieme, lui era fortunato perché gli piaceva la carne grassa. Se era magra ne davano un pezzettino, se era grassa due pezzetti, allora lui faceva scambio con gli altri, e fino al giorno dopo più niente».

    Erano costretti a rubare gli avanzi della cucina dei tedeschi: «Andavano fuori dalle cucine a rubare di nascosto le pelli di patate, gli scarti. Li rubavano, non glieli lasciavano prendere. Se la facevano franca bene, e se no gli arrivavano le guardie, con il frustino di ferro, ed erano legnate, e coi cani nelle gambe. È andato una volta anche lui a frugare nella spazzatura perché la fame era fame e gli è andata bene, un suo collega invece la sera dopo ha preso tante di quelle legnate… Poi avevano nella camerata una stufa, appiccicavano sulla stufa le pelli di patata per scaldarle, e stavano lì a controllarle altrimenti se le rubavano l’uno con l’altro. Diceva che i tedeschi erano delle bestie, trattavano la gente come degli stracci da usare a pulirsi le scarpe e poi da buttare via».

    A SINISTRA LUIGI DA POLENZA,
    A DESTRA EMANUELE BANA, GUERRA – La ritirata di Russia – vietata la riproduzione

    Nel ’45 si rende conto che la guerra è finita perché dall’alto della collina di Buchenwald vedeva, a valle, che sulla tradotta passavano vagoni e vagoni carichi di militari italiani che scendevano verso l’Italia. Ma a loro a Buchenwald era impedito andarsene: «Gli dicevano che, prima di rientrare, gli italiani dovevano ricostruire una città bombardata». Luigi e alcuni compagni progettano la fuga. Per raccontarlo ai figli, Luigi faceva un paragone: «Diceva che era come se loro fossero stati prigionieri sul monte Belloro e che a Ponte Nossa passava una ferrovia. Lui e un suo amico alpino di Trieste, Luigi Pesarino, una notte sono scappati, mi sembra ci sia stato anche uno di Clusone. Hanno fatto un giro come andare a Lovere da Belloro.

    A Lovere (è sempre un esempio per far capire le distanze), partivano ‘sti treni, perché il treno, dove erano loro, passava solo ma non si fermava, non potevano salire. Allora sono riusciti a fare un grande giro, avevano preso una carrozzina alla quale avevano applicato la ruota di una macchina da cucire, caricata con qualche straccio e qualche cosa da mangiare, e via spingendo la carrozzella. Hanno camminato una giornata o due per riuscire a trovare il punto dove poter salire sul treno, con l’aiuto di Pesarino che parlava lo slavo e riusciva a spiegarsi. Sono finalmente riusciti a salire sul treno per tornare in Italia».

    La quarantena in provincia di Belluno: «Erano pieni di pidocchi, pidocchi ovunque, diceva che dopo la disinfestazione gli sembrava di essere tornato vivo!». Poi finalmente un treno che portava a Milano: «Alla stazione di Milano, su un camion uno gridava ‘bergamaschi, bergamaschi!’, era  l’arciprete di Clusone che era andato a recuperare i bergamaschi». Era notte fonda quando è sceso dal camion a Ponte Nossa: «Era il mese di settembre, i primi di settembre, perché quando era arrivato all”albergo’ aveva visto la porta, gli addobbi del festone di San Defendente. La ritirata di Russia

    Salendo ha incontrato due persone che conosceva, l’Andrea de Par e suo zio il pastore, che andavano nella bassa a prendere l’erba. A loro ha chiesto come stava la sua famiglia, se c’erano ancora tutti, ed è stato rassicurato. Quando ha picchiato alla porta di casa sono scesi il papà e la mamma che gli hanno portato mezzo bicchiere di vino, e lui è diventato balordo perché non era più abituato».

    Una cintura da tenere nascosta: «Quando è tornato dalla guerra mio papà ha portato a casa una cintura delle SS, con la fibbia con su le S, diceva che se l’avessero beccato con quella cintura l’avrebbero fucilato, ma non trovava nient’altro ed era talmente magro che senza cintura i pantaloni non gli stavano addosso».

    Che carattere aveva suo padre? «Per me, da quello che mi raccontava, era buono anche in guerra, e non perché fosse mio papà. Certe volte mi diceva che gli italiani, all’inizio, in Russia entravano nelle case e sfasciavano tutto, si sentivano forti, e lui provava sempre a dire di non farlo, di prendere solo da mangiare, che i contadini russi non avevano colpe. Quando raccontava della guerra gli venivano le lacrime agli occhi».

    È rimasto in contatto con qualche soldato? «Con quello di Trieste, il Pesarino. L’ho conosciuto anche io, è venuto a trovarci quando avevo circa 10 anni. A Natale ci aveva regalato un pacco con dentro, oltre ai dolciumi, delle carovane, dei cavallini, una maschera di indiano, li abbiamo usati tanto io e mio fratello. Poi è venuto una settimana da noi».

    A Dario viene in mente un altro episodio, che risale però a prima della partenza per il fronte: «Credo fosse il periodo in cui era a Torino a fare l’addestramento. Per due giorni hanno marciato e fatto le prove. Doveva venire il re a Venaria Reale, e per l’occasione avevano fatto riempire a tutti i soldati gli zaini, ma erano zaini gonfi di stracci, hanno dato anche della roba da mangiare, ma poi dopo la silata avevano l’ordine di tornare ai magazzini e lasciar giù tutto, era stata una farsa».

    DA SINISTRA IN ALTO OLIVA BANA, LUIGI DA POLENZA, ANITA DA POLENZA, TERESA BARZASI, GIUSEPPE DA POLENZA. IN BASSO DA SINISTRA I FIGLI DI LUIGI: DARIO E GIUSEPPE – La ritirata di Russia – vietata la riproduzione

    Luigi Da Polenza soldato e dopo anche marito e padre. Un bel ricordo personale? «Non ho mai preso uno schiaffo da mio papà. Dalla mamma sì, e aveva anche ragione. La domenica di solito andava sopra gli alti forni, li hanno costruiti nel ’52, lì sopra c’era una pineta, avevano tagliato tutte le piante. La ritirata di Russia

    Usava un po’ di dinamite, erano gli anni ’57-’58 , allora tanti lavoravano in miniera e la dinamite non era controllata. Faceva il buco sotto il ceppo del pino e lo faceva partire, per rompere un po’ il ‘sòc’, e poi con la scure toglieva la legna. A volte quando veniva a casa con la gerla piena di legna e doveva tornare là, scaricava la legna del primo viaggio e caricava me o mio fratello nella gerla e ci portava così fino in Ceradello.

    La mia nonna materna abitava sopra all’attuale campo sportivo di Ceradello, mia mamma la domenica stava dalla nonna, e ci si ritrovava tutti dopo il viaggio nella gerla. A volte ci raccontava le storie, oppure prendeva un fumetto, gli dava un’occhiata poi ce lo sfogliava e intanto ce lo raccontava, avventure di cow boy e di indiani, la sera stavamo incantati ad ascoltarlo».

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