ROVETTA
Giancarlo, 37 anni, la leucemia, l’azienda agricola, sposato da una settimana e al posto dei regali offerte per l’ospedale
di Sabrina Pedersoli
Giancarlo, occhi azzurri e un sorriso grande. 37 anni, un’azienda agricola che porta avanti con un’infinita passione e una storia alle spalle che rimane come una cicatrice indelebile. La leucemia che prova a prendersi il suo corpo, ma Giancarlo, di cognome Visinoni, rovettese doc, è stato più forte di tutto. Ha combattuto e ha vinto la partita più importante. È una mattinata di fine gennaio, il sole timido spunta all’orizzonte, siamo a Rovetta, a pochi passi dal centro sportivo. Giancarlo è impegnato nella sala mungitura, è qui da ore, la sveglia suona sempre presto.
Ci sediamo al tavolo della piccola stanza che c’è accanto alla stalla, Giancarlo riavvolge il nastro della sua vita, torna con la mente a quel giorno di marzo del 1999, quando la sua vita è cambiata per sempre. Aveva 14 anni, ma la malattia non conosce età, non ti guarda in faccia.
“Mi sono svegliato nel cuore della notte con un forte dolore alla pancia… non capivo cosa mi stesse succedendo. Non aveva nessuna intenzione di passare e così mia mamma ha deciso di portarmi al pronto soccorso a Clusone, dove hanno subito deciso di ricoverarmi. Nemmeno il tempo di tornare a casa per prendere il pigiama che mia mamma ha ricevuto una telefonata: ‘Signora, lo trasferiamo d’urgenza a Bergamo’. A quel punto ha chiamato mia zia, è proprio lei che è salita sull’ambulanza insieme a me, mentre mio zio è sceso con mia mamma. Ricordo tutto come fosse successo ieri, mi hanno portato in ospedale, hanno fatto un prelievo del midollo, un dolore atroce con un ago così grosso che io non uso nemmeno per le bestie. Negli occhi dei medici vedevo la difficoltà nel dirmi che avevo la leucemia, ma mi hanno spiegato tutto e sono rimasto in ospedale per qualche settimana. Il mio caso era grave, c’è chi viene curato con le chemio, chi ha un donatore in famiglia ed è più semplice perché c’è meno rischio di rigetto. Per me nessuna di queste opzioni era valida, io avevo bisogno di un donatore esterno, che però non c’era. È stata dura sentirsi dire tutto questo in faccia… mi hanno dato una cura da seguire a casa e sono stato dimesso”.
Corrono i giorni, la paura prende il sopravvento, ma la vita che ti chiede di non arrenderti: “Prima di quella notte non avevo mai avuto niente, stavo benissimo. Andavo a scuola, quando tornavo a casa prendevo la moto e andavo dai nonni alle Fiorine per aiutarli con le mucche, spesso non tornavo neanche a casa la sera. Durante le vacanze di Natale restavo per tutti i quindici giorni da loro e d’estate andavo sempre in alpeggio, fino ai 14 anni, quando mi sono ammalato”.
Era una primavera buia, dal sapore amaro: “È cambiato tutto. Dopo il ricovero a Bergamo, sono tornato a casa. Un giorno suonano al campanello, mamma era andata in farmacia, ero da solo e sono andato ad aprire. Era una persona molto vicina alla mia famiglia, che conoscevo perché quando stavo in alpeggio veniva spesso a trovarci e a chiederci se avevamo bisogno di qualcosa. Nemmeno il tempo di capire che mi ha fatto salire in macchina e mi ha portato a Monza… posso dirti una cosa: se non fosse per lui, non sarei qui a raccontare la mia storia. Ricordo quel viaggio infinito, che non so se sia stato lungo perché stavo male o perché non ero abituato ad andare in città… avevo però un pensiero fisso, la stalla che avrei voluto costruire, era il mio sogno costruirne una tutta mia… forse era un modo per non pensare a tutto quello che stavo passando, al dolore che avevo, alla paura di non farcela. Siamo arrivati in questo enorme parcheggio, siamo entrati dalla portineria, un lungo viale davanti a noi e poi abbiamo preso l’ascensore. Undicesimo piano. Lì mi hanno preso i medici, sono stato ricoverato per un altro lungo periodo, ho fatto le trasfusioni, esami su esami. Ho avuto paura, quando ero in quel letto non avevo nemmeno più la forza di pensare al mio sogno, mi rendevo conto di essere tra la vita e la morte. Avevo la flebo attaccata giorno e notte, siringhe di morfina per i dolori che non sempre funzionavano, non potevo mangiare e sai cosa mi è mancato di più? L’acqua. Mi svegliavo di notte con una sete incredibile, ma non potevo fare niente. Ero da solo in quella stanza, bollino rosso, entravano i medici con camici, mascherine, cuffie. Non vedevo altro”.
Poi, un caldo giorno d’agosto, un sorriso che profuma di rinascita: “Mi avevano dimesso e tornavo per fare i controlli, quel giorno la dottoressa mi è corsa incontro e mi ha detto ‘Giancarlo sei fortunato, abbiamo trovato il donatore’. Beh, io ero talmente stanco, distrutto fisicamente e con il morale a terra, che non me ne sono neanche reso conto. Sentivo di essere ormai verso la fine, è stato difficile trovare il donatore, ma quando ho capito… non potevo che essere felice. A settembre sarei stato ricoverato per fare gli esami e prepararmi al trapianto. Mi hanno messo un cateterevenoso per somministrare i farmaci che poi avrei tenuto per anni, anche dopo essere guarito… e io che, nonostante non avessi forze, pensavo alla Fiera Zootecnica di Clusone (sorride, ndr). A ottobre sono rientrato per il trapianto, ma non è andata esattamente come me l’aspettavo, infatti hanno rinviato tutto al mese successivo”.
Il 21 novembre il nuovo ricovero: “Ricordo i miei amici che giocavano in oratorio a Rovetta a palle di neve e io che partivo per Monza. Il 30 di quel mese mi hanno fatto il trapianto, per seguirmi l’infermiera ha fatto due turni quel giorno. Sono rimasto per tre mesi isolato in una stanza, entravano bardati, ma tutti gli esami dovevano essere fatti lì, io non potevo uscire. È stata una battaglia dura da affrontare, sentivo il mio dolore e quello degli altri, c’era chi urlava, chi piangeva… ma ricordo anche il sorriso dei medici e degli infermieri, quella è stata la più importante delle medicine, avevano sempre una battuta per tenerti su di morale, anche se tu di voglia di scherzare non ne avevi neanche un po’. Quando mi hanno dimesso non sono tornato subito a casa, perché avevo bisogno di cure giornaliere e sarebbe stato troppo pesante affrontare il viaggio e così la sera andavo nel residence realizzato dal Comitato Maria Letizia Verga… dopo mesi di letto in ospedale non mi sembrava vero di avere un divano”.
Poi il rientro a casa e l’inizio di una nuova vita: “È stata dura, ma ho avuto tante persone vicino a me, a partire dalla nonna e da mia mamma, che mi sono sempre state vicino e non mi hanno mai lasciato. E tutte quelle persone che si sono date da fare, un po’ per portarmi quello che serviva, un po’ aiutavano a casa… penso che non li ringrazierò mai abbastanza. Quando sono tornato a casaavevano organizzato una festa, erano venuti anche alcuni medici e infermieri. Con alcuni di loro sono ancora in contatto e quando li chiamo mi dicono che una telefonata o anche solo un messaggio sono un grande regalo. All’inizio ero molto debole, ma quando me la sentivo cercavo di aiutare i miei genitori e i miei nonni… un giorno ho chiesto ai medici se potevo andare in stalla e guidare il trattore, mi hanno detto di stare attento, di tenere sempre la mascherina e di non andare in posti affollati… avevo i valori sotto terra e le difese immunitarie a zero, per me era tutto un rischio, dovevo stare attento”.
Ma il sogno che aveva dato forza a Giancarlo si è finalmente trasformato in realtà… “Sono stati anni difficili, dovevo stare attento e fare controlli su controlli, poi nel 2006 ho costruito la mia stalla e pian piano è cresciuta. Sono sempre qui, questo è il mio mondo e lo è sempre stato”.
Poi è arrivata Rosanna, di Novezio, a far battere il suo cuore: “Ci siamo sposati sabato 22 gennaio e abbiamo pensato che non avevamo bisogno di regali. Lei aveva già capito la mia idea e l’ha condivisa senza pensarci un attimo e così abbiamo di fare una donazione all’ospedale che mi ha salvato la vita. Non poteva che essere così, se non fossi arrivato a Monza quel giorno, non potrei raccontare la mia storia, non sarei qui a parlarne. È stata un’esperienza dura, ma che mi ha insegnato tante cose. Molte volte nella vita andiamo a cercare le grandi cose, invece la malattia mi ha fatto capire quanto sia importante apprezzare le cose semplici, quelle che hai. Ecco, quello che ho è qui e non posso che essere felice”.