SUOR TECLA, SUOR OTTILIA E SUOR RINA e la disperazione dei poveri del Bangladesh
E’ strano pensare che in una delle nazioni più povere del mondo, circondati da una torma di miseri mendicanti e senza alcuna certezza sui tempi del viaggio, si possa rimanere incantati da un tramonto così poetico. Strano quasi come il fatto che a formulare la frase sia stato Tiziano, da cui non ti aspetti certo la permeabilità ad un simile spettacolo. Eppure dal ponte del ferry boat che ci trasporta da una riva all’altra del Padma, un gigantesco ramo dei mille fumi in cui si scioglie il Gange nel gettarsi nel golfo del Bengala, l’impressione è che ci sia comunque qualcosa di bello anche nel Bangladesh. E’ il “Bangladesh dorato” del poeta Tagore, che ai nostri occhi si svela in maniera imprevista e fa accantonare per un attimo l’ormai solito riproporsi di miseria e disperazione che stiamo vedendo da parecchie ore. Siamo su quella che Fabio ha battezzato la “Zig Zag Road”, oltre 300 chilometri di strada che congiunge la capitale Dhaka a Khulna, terza città del paese dove ci attende il St. Mary Hospital, gestito da Suor Tecla Forchini, una suora di Maria Bambina originaria di Sovere, e dai Padri Saveriani. La strada è veramente impraticabile per i continui sorpassi e rientri al millimetro in cui si avventurano tutti i veicoli, affidandosi solo all’ininterrotto suono del clacson e ad una cieca fiducia nella buona sorte e nell’abilità degli altri conducenti. Sono quasi otto ore che veniamo sballottati all’interno di un pullmino stracarico di cose e persone da cui vediamo una serie continua di foreste, risaie, acquitrini, coltivazioni di juta, negozietti, cani, mucche e capre che si trascinano con stanca indolenza sulla carreggiata. Di solito, una mucca viene superata da un ciclista e questi da un risciò e questo da una moto e questo da un’auto e questa da un camion o da una corriera con il bigliettaio che si sporge per dare un pugno sul tetto dei veicoli o sulla testa dei loro conducenti, tutto mentre sull’altra corsia avviene esattamente la stessa cosa. Gli autisti guardano fissi sulla strada con una freddezza da killer o, suggerisce Tiziano, con l’incoscienza dei disperati che tanto non hanno nulla da perdere. E da perdere in effetti hanno poco. Chi lavora – e non sono tanti – guadagna in media l’equivalente di 10 centesimi all’ora, sprofondato nelle acque delle risaie sino alla vita o della juta sino al collo. Per l’igiene, ci si lava interamente vestiti nei fossi dove qualcuno alleva pesci e gamberi, immergendovi anche lo spazzolino da denti. Chissà se anche qui hanno la pubblicità “consigliato dai migliori dentisti”… Intanto Tiziano continua ad intonare i suoi inni mariani, retaggio della sua infanzia di chierichetto, con una precisione e sicurezza che lasciano di stucco Suor Rina e la dottoressa Luigina Livelli, veterane del Bangladesh, che sono le vere artefici di questo viaggio. Tiziano, accompagnato da Fabio, dice che canta perché quelli delle Palazzine sono tenuti a fare dottrina a quelli di Xino, cioè a me e al Ghignos. Di fronte all’obiezione che secondo noi canta perché ha la coscienza più sporca e, in caso di schianto, è meglio che si porti avanti, si limita a sogghignare, ma non interrompe “Santa Maria del cammino”. Quindi, abbiamo ragione noi. Quando ormai è notte, e a trenta ore dalla partenza da casa, ci fermiamo in una stradina buia di fronte ad un cancello di ferro che si spalanca dopo gli ennesimi colpi di clacson. La stampella di Suor Tecla Di fronte a una palazzina ben tenuta, in un bel giardino, troviamo schierati ad attenderci Suor Tecla con tutto il suo staff e un gruppo di bambini che cantano una canzone di benvenuto e ci mettono al collo delle collanine in segno di ospitalità. E’ il St Mary Hospital: un ospedale in cui vengono prestate cure ai più poveri, a quelli che non si possono neppure permettere di accedere agli ospedali pubblici in cui medicinali e vitto devono essere acquistati dai malati. Si trova nel centro di Khulna, di fronte all’edifcio dell’arcivescovado, e a poche decine di metri da uno slum, una baraccopoli dove, in capanne di fango, lamiere e cellophan, abitano in spazi di tre metri per tre, famiglie di sei, otto, anche dieci persone, che cercano di sopravvivere in condizioni spaventose. L’unico aiuto arriva proprio dalla missione di Khulna che fornisce, oltre alle cure mediche, anche la scuola per i bambini e lavoro per una trentina di persone, tra addetti alla manutenzione, infermiere, cuoche e inservienti. L’Ospedale è, rispetto all’esterno, un vero gioiello, governato con pugno di ferro da Suor Tecla che in questi giorni ha sostituito il suo tradizionale bastone con una moderna stampella in seguito ad un intervento chirurgico a cui è stata sottoposta in Italia nei mesi scorsi. Attaccata a lei conosciamo, tra i vari bambini orfani o figli di famiglie disagiate che vengono ospitati presso l’ospedale, anche Charmin, tre anni, la più piccola, che è la sola a riuscire a tiranneggiare Suor Tecla che, pur sbuffando, non riesce mai a dirle di no. Insieme a Suor Tecla, un’altra suora bergamasca, Suor Ottilia (al secolo Rita Nava) da Scanzorosciate, da oltre cinquant’anni in Bangladesh che, nonostante l’età, non demorde e si occupa di tutte quelle attività che la vita conventuale comporta. Il St Mary è gestito a più mani perché per sei mesi la direzione è affidata alle Suore di Maria Bambina e per altri sei mesi ai Padri Saveriani che ospitano delle équipes mediche italiane che operano i casi selezionati dalle Suore. Si avvicendano chirurghi maxillo-facciali, ortopedici, cardiologi, ginecologi, oftalmologi, che in turni di un mese ciascuno lavorano, come si dice, dalle stelle alle stelle, intervenendo su casi spesso rifiutati dagli ospedali locali. “Lazarù, ‘ndo set?” Sono numerosissimi i casi di malformazioni congenite e di tumori anche infantili legati alle condizioni di vita miserrime e alle consanguineità. Tutti i giorni, in un piccolo bungalow nel giardino, viene attrezzata una sala trasfusioni che funziona per i bambini talassemici. A vederli per ore nel loro lettino attendere che si esaurisca la flebo, non sai se dispiacerti oppure gioire perché altrimenti, senza la missione, sarebbero già morti da un pezzo. In Bangladesh non è un problema trovare i donatori: c’è gente che vende il sangue per vivere. La questione è che i pazienti non hanno i soldi per acquistarlo e senza l’aiuto esterno non potrebbero permetterselo. La struttura ospedaliera è veramente bella: tenuta con estrema cura da Suor Tecla che si occupa anche dei più piccoli dettagli, rampognando in bergamasco stretto i suoi operai, con un occhio da capomastro che vede il millimetro di fuori piombo da venti metri di distanza. Tutto il giorno senti il suo “Lazarù, ‘ndo set?” alzarsi ora dalle cucine, ora dagli ambulatori, ora dall’area del giardino destinata ad allevamento delle mucche, degli animali da cortile e delle capre per cui è diventata famosa. Quando una donna partorisce, le regala una capra gravida, così puerpera e neonato potranno avere latte e carne per il primo periodo. Lei dice che, nata in una famiglia contadina, non potrebbe fare a meno di allevare qualcosa. In realtà ci sono tanti che buttano volentieri alle spalle i loro semplici natali, ma lei è di un’altra pasta. Prima del suo avvento, il giardino era pieno di piante ornamentali che lei ha man mano fatto tagliare per far spazio all’orto. Pare che al Vescovo, appassionato di fori e che abitava di fronte all’Ospedale, che le tirava un po’ le orecchie ricordandole che la proprietà era dell’Arcivescovado, abbia risposto senza batter ciglio “Dato che ci viene a trovare così di rado, ho tagliato le piante così possiamo gioire comunque della sua presenza”. Come si dice, colpito e affondato… Valigie di medicinali Noi alloggiamo all’ultimo piano, dove risiedono i medici italiani durante il periodo operatorio. Stanze semplici, ma molto decorose, tinteggiate di fresco e dotate anche di aria condizionata, una vera manna per questo clima di 38 gradi e 100 % di umidità. Risultato: nella nostra camera, Tiziano ronfa sereno come un leone marino e io mi alzo con la brina sul letto. Consegniamo a Suor Tecla le valigie in cui abbiamo stipato sino all’inverosimile tutti i medicinali e le attrezzature mediche che abbiamo portato dall’Italia. In un momento di debolezza, Suor Rina ci ha con magnanimità autorizzati ad arrivare a 4-5 chili di bagaglio personale su 40 chili complessivi, per cui siamo arrivati con quello che abbiamo indosso, lo spazzolino da denti e il carica cellulare. Ci consoliamo comunque perché abbiamo svolto il principale ruolo per cui – con tatto e delicatezza – ci avevano reclutati, quello degli spalloni e quindi tutto quello che faremo dopo è tutto in aggiunta. Tiziano dice che lui comunque deve ancora assolvere il compito più arduo e cioè quello di sopportarci per dieci giorni: si accomoda quindi davanti ad un fumante piatto di pasta che – sue testuali parole – “non è per la fame, è per la nostalgia”. Rientra anche l’ammutinamento di Fabio, designato per acclamazione erede e clone di Tiziano, piegato in due dal viaggio sul pullmino e ristorato dalla cena italiana. Il pozzo “elettrificato” Dopo un sonno ristoratore, il giorno successivo cominciamo ad esplorare quello che Ghignos chiama “Fort Apache”, il plesso dell’ospedale, recintato da alte mura sormontate da filo spinate e cocci di vetro. Nel giardino è stato realizzato a mano un pozzo profondo oltre trecento metri che consente di avere acqua anche nel periodo siccitoso. La pompa è manuale e quindi nasce l’idea di elettrificarla per poter caricare un serbatoio posto sul tetto dell’edificio e consentire la distribuzione dell’acqua potabile con la rete domestica. Ghignos, elettricista con specializzazione idraulica conseguita in anni di Polonia, organizza il progetto e prepara la lista del materiale necessario. Ho già capito che, come al solito, tocca a me il compito della cerca, che sarebbe anche un lavoro simpatico se non comportasse ore di paziente attesa in qualche sperduto bazar o lunghe trattative per spiegare cosa serve, il tutto condito con simpatiche sequenze di traduzione multipla dal bergamasco all’italiano poi all’inglese e infine in qualche dialetto locale. Di solito, finisce che la parola finale tradotta è quasi uguale a quella bergamasca di partenza, così siamo tutti più felici, compreso il commerciante che si convince che “canèf” sia la denominazione dell’ultimo ritrovato della scienza idraulica italiana. Questa volta però andiamo tutti insieme e Suor Tecla ci assicura un idoneo mezzo di trasporto: un risciò con una piattaforma di legno dove ci accomodiamo noi quattro oltre a Tomal, un giovane bengalese che conosce l’italiano e che lavora come strumentista in sala operatoria. Il conducente, felicissimo in un primo tempo per l’insperato incarico, sembra sbiancare quando si rende conto della mole di Tiziano che lo apostrofa con un secco: “Dom, dom che sò ‘n dieta!”. La “cresima” di Suor Tecla Riusciamo a trovare quasi tutto quello che ci serve e ci possiamo dedicare anche a un po’ di shopping personale per acquistare qualche maglietta di ricambio, vista l’esiguità del nostro guardaroba italiano. Andiamo al Boro Bazar, il grande mercato, che è molto affollato in questi giorni in concomitanza della festa di It, che segna la fine del Ramadan. Qui la popolazione è quasi totalmente musulmana, con una piccola minoranza Hindu e una ancora più piccola presenza cristiana. Non ci sono in questo momento particolari tensioni religiose, ma i cristiani (soprattutto i cattolici) cercano di evitare accuse di proselitismo che possono infiammare gli animi. Ci racconteranno poi di una scena biblica di Suor Tecla che affronta, armata solo del suo fido bastone e di un coraggio leonino, una folla di 150 persone che stava linciando un ragazzo cristiano reo di aver rubato una maglietta durante la preghiera in una moschea. Al grido di “se c’è qualcuno che non ha mai fatto un peccato, lo aiuto io a picchiare questo ragazzo”, condito da un paio di schiaffoni assestati al più esagitato, la suora arpiona il malcapitato e lo trascina all’interno delle sicure mura dell’ospedale. E con serenità gli impartisce, invece della possibile estrema unzione, una salvifica “cresima” nel senso montanaro del termine che accontenta l’onore degli accusatori e conserva la pelle all’accusato. Nel bazar tutti ci osservano con un po’ di stupore. E’ assai difficile che occidentali vengano da queste parti e, soprattutto per i bambini, è probabile sia la prima volta che vedano quattro europei in un colpo solo. A parte la zona di Chittagong, dove si trovano i cantieri dove vengono smantellate a mano le navi per ricavare materiale per acciaierie e laminatoi, nel Bangladesh sono abbastanza rare le industrie e gli stabilimenti stranieri. Chi negli anni scorsi aveva avviato attività manifatturiere ha trasferito tutto in Cina dove la manodopera è altrettanto a buon mercato, ma sono garantiti trasporti ed energia elettrica, in Bangladesh molto aleatori. Facciamo i nostri acquisti (quattro magliette per l’equivalente di quattro euro) e torniamo alla missione. Il primo impatto della vita bengalese è piuttosto forte e ci tuffiamo nel nostro lavoro. La fila degli ammalati Luigina, coadiuvata da Suor Rina, ha cominciato di primo mattino a visitare numerosi pazienti: sarà il leit motiv della vacanza Quindi ci sono tutta una serie di problematiche da valutare, bisogna tenere presente che in quel punto c’è un torrente di confine che fa parte del reticolo idrico minore con la sua fascia di rispetto di 4 metri. Poi anche il discorso che risistemando il terreno è stata fatta un’opera meritoria, perché in quel punto c’era un ricettacolo di carcasse di animali morti e di rovi, non sta in piedi. Il comune di Borgo le carcasse le ha sempre rimosse, basta segnalarlo, dopodiché a me risulta che lì c’era un praticello tenuto puntualmente in ordine, un prato che rimaneva una quota più bassa della statale, sono cresciute delle erbacce e qualche rovo in vicinanza della valletta perché per via dei lavori fatti, la valletta, è stata modificata come letto e come sponda. Per cui erano stati depositati dei materiali e qualche rovo è cresciuto, ma non c’era una situazione igienico/sanitaria di degrado a livelli preoccupanti. Adesso vedremo gli sviluppi, penso che Luzzana debba formalizzare se vorrà la richiesta di modifica dei confini, tengo a precisare che noi abbiamo approvato definitivamente un Piano di Governo del Territorio dando per scontato che i confini erano quelli definiti, non ci sono giunte comunicazioni, ne dai privati ne tanto meno dall’amministrazione comunale di Luzzana, inerenti a errori nei confini”. Da sottolineare il fatto che il PGT è stato redatto come un Piano condiviso dai tre Comuni della Media Valle Cavallina: “L’abbiamo elaborato in modo unitario. Vista tutta questa querelle, io ho cercato di documentarmi un attimo e sono andato a consultare una mappa Austroungarica del 1850 circa che definisce il confine tra i due paesi alla mezzaria della strada. Poi che la strada sia stata in parte rettificata quando è stata fatta la statale ci sta, ma diciamo che il segno di confine riconosciuto da tutti è la mezzaria della valletta e della statale. Poi se si vuole andare a fsimare… Dico solo che non è il caso di scomodare i Santi per queste cose qui… casomai i Santi hanno qualcosa di ben più importante da fare”. Ha qualche altra cosa da aggiungere ?“Il procedimento potrà anche essere archiviato ma se cambia la dislocazione del terreno non è che cambiano le leggi, il reato rimane. La cosa non sta in piedi. Un Sindaco ha anche qualcosa d’altro da fare di molto più importante per i propri cittadini che stare lì a correre dietro a queste cose che sono delle sciocchezze rispetto ai problemi reali della gente”.
UCRAINA, LA “NAZIONE DEGLI ORFANI” Ma nell’ex granaio del mondo manca il pane dell’amore “I volontari intervengono sugli edifici degli orfanotrofi ristrutturandoli, sistemandoli, fornendo manodopera, sono edifici fatiscenti, e poi c’è il gruppo che va a fare animazione ad agosto ai bambini che escono dagli orfanotrofi e vengono sistemati in quelli che vengono chiamati lager, tre lager, di cui uno per bambini minorati e gli operai intanto intervengono sugli orfanotrofi mentre non ci sono i bambini”.
Renata, Emy e Flavia arrivano in redazione con un mucchio di materiale, ma le cose più grosse le tengono dentro, e si riflettono sugli occhi che si illuminano, diventano chiari o scuri a seconda di quello che raccontano. Che l’anima passa da lì, da uno sguardo, da un’occhiata che diventa sole o pioggia a seconda di quello che si trova davanti. E Renata Magri, Emy Bonicelli e Flavia Spada raccontano pezzi di anima dei bambini ucraini di quelli che là vengono chiamati ‘Internat’, orfanotrofio ucraini che accolgono centinaia, migliaia di bambini senza famiglia. Emi e Flavia sono appena tornate dall’Ucraina, ma non da un Internat ma da un… lager: “Vengono chiamati così i cosiddetti Cre, campi estivi, noi andiamo là per fare animazione, per stare con i ragazzi, per cercare di dar loro affetto e vita”. L’associazione che si occupa di questa esperienza si chiama ‘Domanizavtra’ e Renata Magri è la segretaria: “L’associazione – racconta Renata – nasce nel 2001 grazie al desiderio di alcuni volontari di unificare sotto un’unica organizzazione vari progetti di solidarietà verso l’orfanotrofio di Gorodnia in Ucraina”. Renata parla con la voce bassa, lei che non sopporta la pubblicità, lei che a Vilminore ha lasciato un pezzo di vita che è volato in cielo troppo presto, lei che si è inventata questo nuovo modo di dare amore senza avere riflettori addosso. Sorride: “Non so nemmeno cosa dire, so però come si fa a dare amore” che solitamente succede il contrario e forse sta tutto qui il segreto di queste tre donne che dalla Val di Scalve se ne vanno in Ucraina non per portare cibo o vestiti ma per dare amore e stare, vivere, dormire, gioire, soffrire, crescere con orfani che hanno bisogno di anima e non solo di cibo. L’Associazione ha sede a Darfo e raccoglie volontari dell’Alto Sebino e della Val di Scalve: “I volontari intervengono sugli edifici degli orfanotrofio ristrutturandoli, sistemandoli, fornendo manodopera, sono edifici fatiscenti, e poi c’è il gruppo che va a fare animazione ad agosto ai bambini che escono dagli orfanotrofi e vengono sistemati in quelli che vengono chiamati lager, tre lager, di cui uno per bambini minorati e gli operai intanto intervengono sugli orfanotrofi mentre non ci sono i bambini”. Flavia Spada, 32 anni, arriva da Schilpario, Emy e Renata da Vilminore: “L’Ucraina è stata messa in ginocchio dalla vicenda Chernobyl, prima era il granaio d’Europa, adesso è sul lastrico, e i bambini sono senza famiglia. I più fortunati paradossalmente sono quelli che vivono negli orfanotrofi, perché gli altri sono in strada, nelle fogne a sniffare colla”. Ucraina, conosciuta anche come la Nazione degli orfani, perché? “L’estrema povertà, la disoccupazione, l’alcolismo, tutti fattori che sfasciano il paese e poi là i matrimoni durano in media 5 anni, non c’è un tessuto sociale e la vodka fa il resto”. E per dare un senso e un colore a quel resto Emy e Flavia sono andate in Ucraina per il secondo anno consecutivo, Emy racconta come fosse ancora lì, quel grumo di emozioni, che spacca il cuore e si infila dritto nell’anima, quei volti di bimbi che il futuro ce l’hanno dipinto solo a parole: “L’impatto – racconta Emy – è sereno, quando arrivi i bambini non sono dentro l’istituto grigio, ma sono in vacanza. In questo bosco con casette colorate dove passano un paio di mesi estivi”. L’età va dai 5 ai 17 anni: “I lager nonostante il nome sono posti accoglienti, la sera nella piazza centrale c’è un disco lager che trasmette musica, i bambini sono seguiti da assistenti che però oltre che metterli in fila per mangiare non hanno molto. Noi cerchiamo di entrare nel loro mondo, raccogliere la loro fiducia e soprattutto trasmettere loro quell’amore che gli manca”. Perché in Ucraina il bisogno più grande è proprio quello: “Hanno fame d’amore, sono tutti orfani, troppi orfani, da mangiare ce l’hanno, i vestiti anche se brutti ci sono, ma manca l’affetto, lo cercano dappertutto, sono ‘DOMANIZAVTRA’ L’ASSOCIAZIONE CON SEDE A DARFO CON VOLONTARI DELL’ALTO SEBINO E DELLA VAL DI SCALVE UCRAINA, LA “NAZIONE DEGLI ORFANI” Ma nell’ex granaio del mondo manca il pane dell’amore affamati d’affetto”. Emi racconta quell’affetto: “Ti rimane dentro, addosso, lo sento dentro anche adesso, un bisogno d’amore che ti inchioda con lo sguardo, con un bisogno di carezze, una risata”. E a quel punto chi se ne frega dell’alloggio: “Dormivamo su un materasso basso, non c’è altro, pensa che nei bagni non esiste la carta igienica perché intasa, i bambini puzzano. C’erano 40 gradi, era il periodo dell’estate torrida, noi eravamo in mezzo a questa foresta che poteva prendere fuoco da un momento all’altro, a pranzo si mangia una specie di minestra bollente di patate e barbabietola rossa, altro non c’è. Ma i loro problemi non sono questi ma l’amore. In Africa i bambini hanno la pancia gonf8a perché non mangiano ma la tribù li alleva, si occupa di loro, in Ucraina sono orfani di affetti. I bambini arrivano da tremende esperienze, tolti alla famiglia per continue violenze, si chiudono e non raccontano, se chiedi a un bimbo dov’è la mamma guardano verso il cielo, se gli chiedi dov’è il papà mostrano le braccia incrociate, indicano la prigione”. Emy racconta episodi come fossero fermi immagine infilati dentro che non si spostano più: “I bimbi grandi ti cercano, ti prendono la mano e non te la mollano più. Magari durante un film senti che ti prendono la mano, con discrezione, senza farsi vedere dagli altri, affamati d’affetto, anche loro, come tutti”. I giochi contano poco: “Perché loro giocano con tutto, non hanno bisogno di giochi strutturati come i nostri bambini, ho visto bimbi giocare ore e ore con un sasso legato a un filo di spago e divertirsi, creano con la fantasia e trasformano in luce quel poco che hanno. Pensavamo di insegnargli a creare giochi con il materiale che avevamo portato e invece manualmente sono imbattibili, dal niente ricavano capolavori”. “A me – racconta Flavia – un bimbo con le perline in pochi minuti ha creato un coccodrillo, me lo ha regalato, era felice”. Ma poi c’è la partenza: “E quando li vedi piangere – continua Emy – ti chiedi se davvero abbiamo fatto bene a venire, ma è così, lo stacco lo sentiamo noi e lo sentono loro, ma è necessario, dobbiamo dare loro una vita serena, una vacanza serena, ci proviamo, ci proveremo sempre, perché si torna, eccome se si torna”. Emy racconta di Eugeny: “C’era caldo, caldissimo, alcuni hanno preso insolazioni, Eugeny scottava, gli ho detto di andare dal dottore, mi ha guardato, ha sorriso, è corso dentro la baracca del medico e gli ha gridato ‘temperatura’, poi è uscito sorridendo e mi ha detto ‘tutto a posto’, loro sono così, si sbrigano da soli, anche se sono piccoli”. L’associazione cura tutto nei minimi particolari: “E per minimi particolari intendiamo l’approccio e il rapporto coi bimbi, ci si chiede adesso se è giusto portare qualcuno di loro in Italia, per una vacanza d’oro e poi tornare lì, noi cerchiamo di dare loro un futuro, ci vorrebbero famiglie che adottano, altre strutture, affetto, loro non hanno una famiglia alle spalle ma non è giusto illuderli di potergli offrire una famiglia se non è così, si aggiunge dolore a dolore”. L’Associazione fornisce assistenza anche ai bimbi malati: “Siamo intervenuti – spiega Renata – con una bimba che a causa di una malattia rara era quasi cieca, abbiamo pagato l’intervento in Ucraina ma non era andato benissimo, l’abbiamo portata in Italia e dopo molte visite finalmente sono riusciti a intervenire con la cura giusta, stava morendo, dentro era piena di infezioni”. E l’Associazione intanto ha… messo su casa in Ucraina: “Abbiamo comprato a Gorodnja una casa – continua Renata – in modo da poter ospitare chi va in Ucraina per adottare bimbi, la legge impone che si debba passare un po’ di tempo con loro e per limitare le spese delle famiglie abbiamo pensato di comprare una struttura, in modo che le coppie in attesa di adozione possano andare lì”. Anche se le adozioni restano poche: “E’ difficilissimo adottare, ci vuole pazienza, tempo, denaro e anche fortuna, speriamo che si trovino regole più snelle, gli orfanotrofi scoppiano, così come scoppia il bisogno d’affetto di questi bimbi”. E adesso? “E adesso stiamo già pensando al ritorno in Ucraina, perché l’affetto non lo diamo solo ma lo riceviamo e ti rimane addosso come una fame da saziare” e l’Ucraina che una volta era il granaio d’Europa adesso prova a sfamarsi e a sfamare con altro.