INTERVISTA DI ARABERARA DEL 10 APRILE 2009 – GINO STRADA: “Non sono un pacifista, sono semplicemente contro la guerra. Noi andiamo dove c’è bisogno e… dove essere curati costa”

0
184

Undici anni fa Araberara aveva fatto una lunga intervista a Gino Strada. La riproponiamo per un “ricordo” (crediamo non banale) dopo la sua morte improvvisa il 13 agosto scorso…

Missionario laico? Laico lo sono di sicuro, missionario direi proprio di no”. E’ della generazione che già fatica a inquadrare se stessa in un mondo scomparso, le date, gli avvenimenti della storia fanno aggio su quelli personali. E definire se stessi oggi oltre che faticoso, è spesso inutile, il giorno dopo già devi cercare di non farti inquadrare da qualcuno cui fa comodo “arruolarti” per (sua) convenienza.

Gino Strada è divertito dal fatto di non ricordare con precisione l’anno in cui si è laureato in medicina, che importanza può avere nel quadro della grande storia quel dettaglio, ai margini dell’affresco? Comunque dovrebbe essere il 1978. Poi si è specializzato in “chirurgia d’urgenza” che già sembra una scelta di qualcosa di… insolito. “Sì prima la chirurgia d’urgenza e poi quella cardiovascolare”.

Quest’ultima più comprensibile, il filone dei trapianti si capisce che possa affascinare un giovane laureato. Ma la chirurgia d’urgenza? “Perché è molto interessante professionalmente, vuol dire lavorare anche in condizioni non sempre facili, anche qui, e poi a Milano c’era questa grande scuola di chirurgia d’urgenza che era stata fondata dal Prof. Staudacher” (Carlo Staudacher che dal 1969 al 1980 fu assistente ospedaliero nella Divisione di Chirurgia d’urgenza all’Ospedale Maggiore di Milano – n.d.r.).

“Io lavoravo nel suo reparto quindi è stato naturale affezionarmi a quella disciplina”. Hai detto “anche qui”, che vuol dire in Italia… “Beh, la chirurgia d’urgenza è quella che si occupa dei traumatismi acuti, è una chirurgia molto impegnativa, si lavora tanto, non ci sono mai orari, non è un’attività di tutto riposo”. Una carriera davanti, anche se non di tutto riposo, e uno decide di occuparsi di “traumi” in paesi lontani… “Lontani per modo di dire, lontano è tutto quello che non vogliamo sentire come nostro, ma se ci si pensa non sono poi tanto lontani…”. Adesso no, ma in quegli anni… “Allora non pensavo specificamente alla chirurgia di guerra. Volevo appena verificare cosa poteva voler dire essere un chirurgo in quelle parti del mondo dove chirurghi e medici non ce ne sono molti”.

E il primo impegno fu con la Croce Rossa. “Partii con la Croce Rossa Internazionale da non confondere con la Croce Rossa Italiana. Partii e finii in un ospedale per feriti di guerra in Pakistan. I feriti della guerra afgana venivano trasportati in Pakistan… credo fosse il 1987. Era un ospedale della Croce Rossa Internazionale”. E poi ti sei staccato dalla Croce Rossa. “Ci ho lavorato un po’ di anni, fino al 1992”. E come è nata l’idea di creare i “tuoi” ospedali? “L’idea di Emergency è nata da quell’esperienza lì, dai bisogni enormi che vedi e di quanto poco si possa rispondere e quindi una mano in più serve sempre”. Adesso che l’organizzazione l’hai creata sembra naturale, ma ritornando a quell’epoca uno si può chiedere, perché non sei restato con la Croce Rossa, non deve essere stato facile metter su degli ospedali in terre straniere. “Ma era anche successo che la Croce Rossa Internazionale ha smesso di mettere a disposizione ospedali, hanno cambiato la loro politica degli aiuti, diciamo così, e quindi i bisogni semplici, naturali, di curare i feriti sono diventati ancora più drammatici”. Il primo ospedale che hai realizzato? “E’ stato un piccolo ospedaletto che abbiamo messo su nel 1995 nel nord dell’Iraq, ai confini con l’Iran”. E hai avuto difficoltà? “No, era una piccola cosa, non era certo un grande centro. Poi a mano a mano siamo andati avanti e così abbiamo realizzato altri ospedali in Iraq, in Cambogia, in Afghanistan, in Sierra Leone… Quest’anno (era il 2009 – n.d.r.) Emergency compie 15 anni e nessuno allora immaginava sarebbe diventata quello che è oggi”. Quanti sono adesso gli ospedali che avete? “Abbiamo una decina di centri tra ospedali e centri di riabilitazione. Poi abbiamo moltissime cliniche e posti di pronto soccorso…”. Una grossa organizzazione. “Grossa no, siamo sempre piccoli rispetto ad altre organizzazioni, ma abbastanza unica nel suo genere, cioè praticamente siamo gli unici che costruiscono e gestiscono ospedali in tutto il mondo, una cosa è inviare un medico ad aiutare per tre mesi, un altro è costruire e gestire un ospedale, devi coinvolgere molta gente e deve durare”. Tutta gente che non vuole essere considerata “missionaria”. E allora come ti consideri? “Uno che fa il suo mestiere in modo professionale, mi piace lavorare bene, non mi piace l’approssimazione. Tanta professionalità e tanta passione”. Uno dice, va bene, cose che si possono fare anche in Italia. “Certo. Se vai in un pronto soccorso italiano in genere trovi abbastanza medici, magari trovi anche quelli che fanno a gara per curare un paziente, anche per fare esperienza, se vai in un pronto soccorso africano ci sono pochi medici e un sacco di pazienti. E allora serve farlo in Italia ma a maggior ragione serve farlo dove i medici non ci sono”. Voi siete praticamente presenti in tutti i posti del mondo dove ci sono focolai di guerra, guerre vere e proprie o conseguenze di guerre appena sopite. Quindi hai una grande esperienza, una lettura sul campo dei perché? La maggior parte di queste guerre sembrano “guerre di religione”. Che rapporto c’è tra religione e guerra? “No, assolutamente no. Le guerre sono una piaga che dura da centinaia di anni anche se nella storia sono state sempre più violente e quelle di oggi sono le più violente che si siano mai viste. Ma le ragioni delle guerre hanno sempre tutt’altra origine, le guerre si fanno per rapinare qualcosa, poi si usa la religione come è stata usata anche nei secoli scorsi per giustificare le guerre, per farle accettare, per tenere alto il morale, ma le ragioni vere sono altre”. Una delle ragioni ultime è stata quella dell’esportazione della democrazia… “La chiamerei la ragione, più che altro, dell’importazione del petrolio, quella dell’esportare la democrazia era una scusa, la ragione vera era un’altra… cosa vuol dire, per regalare la democrazia a un paese vengo lì e lo bombardo? Mi sembra un approccio assolutamente folle”.

Tu lavori in zone in cui l’Islam è dominante. Siccome in occidente si sta guardando all’Islam come al futuro “invasore” e si coltiva la paura… “Ma io credo che tutte queste cose siano fenomeni assolutamente italiani, molto provinciali. Chi vive spesso all’estero si rende conto che queste paure sono delle grandi stupidaggini che si inventano i nostri mezzi di informazione, i nostri politici. Le comunità islamiche convivono da molti anni in altri paesi europei e sono parte normale di una società. E’ soltanto qui che creiamo queste fobie stupide”. Da noi c’è chi ha usato anche il termine di “civiltà inferiore”. “Chiunque usi il termine ‘civiltà inferiore’ dimostra soltanto di essere un cretino”…

SUL NUMERO IN EDICOLA DA VENERDI’ 27 AGOSTO

LASCIA UN COMMENTO

Per favore inserisci il tuo commento!
Per favore inserisci il tuo nome qui