LA STORIA /2 – BERGAMO – «Mio figlio, il suo volo verso l’inferno San Patrignano e siamo tornati a vivere»

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(A.R.) Sono IO. Sono una donna, una moglie, una figlia e una sorella. Sono madre. Ma soprattutto, per tanto tempo, sono stata solo la mamma di un figlio tossicodipendente. E sono stata soprattutto SOLA come mamma di un tossicodipendente. E questa è la nostra storia. Un’intelligenza superiore alla norma, una competenza sociale precaria. In bilico fra vette di successi al di là della sua età e rovinose cadute nelle relazioni (amicizie difficili, improvvisi sbalzi d’umore, crisi di ansia…), arriva alla prima superiore.

Frequenta con ottimi risultati e pare avviarsi ad una vita sociale più quieta. Il suo comportamento sembra raggiungere una certa stabilità, anche se rimane quel ragazzo un po’ “strano” che a volte affascina e altre volte esaspera, per i suoi eccessi positivi e negativi. Come mamma sono alquanto in allarme: non mi pare che sia sereno, non mi pare che stia sviluppando un temperamento equilibrato. Anzi sempre di più mi sembra che la sua sfera emotiva sia fuori controllo e che lui ne sia sopraffatto. Ne parlo con gli insegnanti, che quasi ridono, dicendomi che è una normale “fase adolescenziale”.

Ne parlo con la nostra dottoressa, che prescrive alcuni esami da cui risulta una mononucleosi. Tutto spiegato. Tutti sollevati e contenti. Arriviamo al secondo anno delle superiori e appare velocemente sempre meno sereno: i suoi occhi sono spesso arrossati e stanchi, i voti calano vertiginosamente, le ore in casa passano fra “pisolini”e  P.C.
Qualcosa di sicuro non va.

Vengo chiamata a scuola, mentre già in famiglia iniziamo a parlare di possibili spinelli e alcool. I professori sono arrabbiati, non ridono più e pare che fino a quel momento io non abbia gridato, chiesto aiuto, domandato una mano. Pare che abbiano scoperto tutto loro e che mi richiamino all’ordine, seccati, perplessi… non solo non studia, ma è arrogante e parla apertamente di “fumo”. Lo affrontiamo, lui nega. Noi teniamo duro. Lo castighiamo: via il P.C. Via il cellulare. Basta uscite. Lui accetta. Si calma. Poi riprende. Gli occhi sempre più rossi, inizia a vestirsi in modo trasandato, le sue compagnie si fanno preoccupanti. Non torna a dormire al sabato.. Pare riprendersi di nuovo. Ammette di usare Marjuana, ma promette di smettere. Dice di aver capito. Noi speriamo. Vogliamo sperare e credergli. Ed invece, ormai, il volo verso l’inferno è iniziato.

Nei due anni successivi, nonostante i nostri mille, diversi interventi, semplicemente si annulla nelle sostanze e nell’alcol. Arriva ad usare di tutto, in casa spariscono i medicinali, ruba soldi e gioielli. Vado dalla polizia, da medici, da assistenti sociali, da sacerdoti… vado e torno a casa, sempre più sola. Accetta di andare dallo psicologo, poi dallo psichiatra, poi al Sert. Sa di star male. Promette, anche a se stesso, di smettere. Ma ormai la sua paura di vivere è troppa: i suoi fantasmi, forse all’inizio gestibili, ora sono mostri  enormi e lo divorano. Non sa far nulla se non “si fa” di droga o di alcol. Ha crisi di panico. Si arrabbia e poi piange. Vado a denunciarlo e con lui gli spacciatori che gli offrono “amicizia e aiuto”. I carabinieri dicono che non si può far nulla (“Anche se lo arrestassimo, signora, uscirebbe dopo una notte”).

Contatto le altre famiglie, quelle dei suoi “amici”, quelli con cui si sballa e spaccia. “Aiutiamoci” dico loro “Facciamo fronte comune per i nostri figli”. Nulla. Pare che io sia l’unica ad avere questo problema. Vado, chiedo e torno. Sempre più sola. Eppure quando vago nella notte per cercare mio figlio che non è nel suo letto, non lo trovo da solo, accasciato sui marciapiedi a vomitare o nei boschi semisvenuto. E sempre con altri ragazzi. Quando mi chiamano da scuola o in questura perchè ha combinato qualcosa, non è mai solo.  C’è sempre qualcuno con lui. Non capisco questa omertà. Non comprendo questo far finta di nulla. Viene ricoverato due volte all’ospedale per “stato di incoscienza”. Prescrivono psicofarmaci: mi pare un controsenso, mi pare un incubo, anche intorno a me mi pare che tutto vada alla rovescia. La seconda volta lo porto io all’ospedale, perchè lo trovo svenuto per strada. Prima però lo lavo e lo cambio: si è vomitato e sporcato addosso. Non mi riconosce neppure più. Lavanda gastrica, consulto psicologico e psichiatrico: “Cambiamo ansiolitici signora” ed uno sguardo severo, come a dire “Ma lei dove sta cara signora? Dovrebbe curarlo di più questo ragazzo!”. Quando torna in sé, a casa esce per comprare una birra ruggendomi addosso “Io non vado in una comunità: non ho bisogno d’aiuto”. “Allora in casa non ci puoi restare”.

“Tanto sei tu che te ne pentirai. Forse ti manterrò io con i soldi dello spaccio!”. Quando torna mi trova sulla porta con un un piccolo zaino: all’interno la sua biancheria e null’altro. Poche parole le mie, per una volta non inizio discorsi lunghissimi, non ingaggio alcuna lotta intellettuale: “Ti voglio troppo bene per lasciarti morire. Chiamami quando vorrai uscirne davvero”. E lo caccio di casa. E così è stato.

Dopo due mesi è tornato, chiedendo aiuto, non senza aver prima fatto di tutto: rubato, minacciato il suicidio, andato dai carabinieri a denunciarci per abbandono… ma noi non abbiamo ceduto. Lo abbiamo riaccolto solo a condizione che entrasse a San Patrignano. Abbiamo iniziato il percorso di preparazione con l’associazione del nostro territorio. Questa volta non abbiamo mai ceduto alla speranza che le cose potessero cambiare da sole, ci siamo fidati. E abbiamo fatto bene. Non ero più sola. Non lo sarei stata mai più.

Dopo 5 lunghi, faticosi e densissimi anni è uscito dalla comunità, avendo completato il percorso. Ora lavora e vive la sua vita. Bada a se stesso, gestisce una vita normale e abbiamo ricucito una nuova vita di relazioni famigliari…

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