Riprendiamo il racconto della tragedia del Pukajirka (vedi Araberara del 23 luglio scorso pagg. 2-3)
È il momento del crollo dei grandi muri di ghiaccio che avevano fermato tutte le precedenti spedizioni, non solo italiane) negli anni precedenti. E’ il 14 luglio 1981, quarantanni fa. Flavio Bettineschi ha scalato il “terribile” primo muro è è in cima. Gli si presenta un grande spiazzo, alla vetta ci si può arrivare comodamente “in cinque minuti”. E’ fatta. Nani Tagliaferri percorre lo stesso tragitto di Flavio che per superare il muro aveva impiegato due ore e mezzo. Nani ripete lo stesso percorso, già attrezzato da Flavio, in mezz’ora. Anche Nani è in cima al muro. Il secondo muro è una “pancia”, poca roba. Flavio dispone l’ancoraggio perché i tre in basso, Rocco Belingheri, Livio Piantoni e Italo Maj, in cordata, salgano comodamente da un “camino” e arrivino anche loro in vetta. E’ Mentre Flavio va verso il secondo muro e sta dicendo che lo si supera senza difficoltà e Nani è a presidiare l’ancoraggio per far salire i compagni che crolla tutto, un’intera montagna di ghiaccio che riempie tutti i crepacci per 500 metri di dislivello. Come riferirà Celso Salvetti (il fondatore della sezione peruviana del Cai italiano, organizzatore a Lima di quasi tutte le spedizioni alpinistiche italiane ed europee nella zona): “Sulle Ande si formano quelle creste di ghiaccio per i venti caldi che provengono dall’Amazzonia e che contrastano con il freddo del versante opposto: ogni tanto queste immense creste di ghiaccio crollano. Quella del Pukajirka poteva cadere il giorno prima come il giorno dopo”. Purtroppo è caduta quel giorno, quel momento in cui i 5 alpinisti scalvini avevano per primi superato il primo dei famosi due muri di ghiaccio. E là sono rimasti sepolti tre alpinisti. Riprendiamo il racconto dei due superstiti, alternando il loro racconto. E’ il momento successivo al crollo. Flavio ha la testa schiacciata da due blocchi di ghiaccio, Rocco è rotolato e ha la “sensazione di essere tagliato per metà”.
Il resoconto è tratto dal volume “Pukajirka ‘81 – Storie di uomini e di Montagne” di Piero Bonicelli con introduzione di Folco Quilici – 1983
Flavio: “Respiravo velocemente. Cominciai a muovere un braccio ma si muoveva poco, stretto dal peso della neve. Muovevo le dita: cercavo di portare la mano alla bocca e alle labbra. Mi arrivò un dito, ma con quello anche molta neve. Non so quanto tempo passai a mangiare neve per liberarmi la bocca e a graffiare con le dita.
Finalmente l’aria arrivò e respirai a fondo. Mi fermai qualche minuto per tranquillizzarmi: arrivava l’aria, quindi non dovevo aver fretta. Significava che non ero sepolto dalla neve. Le gambe… mi vennero in mente le gambe. Provai a muoverle: ci riuscivo. Anzi, potevo muoverle liberamente, potevo fare anche la bicicletta. Allora mi resi conto che ero chiuso nella neve solo dal busto fino alla testa. La resta mi faceva male, avevo ematomi e ferite dappertutto. Lo sforzo per liberarmi era enorme, dovevo rimuovere i massi di ghiaccio che mi stavano sopra. Sgusciai fuori: ero fuori. Istintivamente mi misi in piedi, ma non mi orientai. Aprii gli occhi, o meglio, io pensai di aprire gli occhi, perché erano già aperti, ma non vedevo niente. Avevo gli occhi sbarrati, mi rendevo conto di essere lì a guardare, ma non vedevo neppure le mie mani e sfregavo gli occhi continuamente. Allora mi persi d’animo. Cominciai a pensare che era meglio fossi morto subito, piuttosto che morire a poco a poco: non sapevo dov’ero e non potevo più saperlo perché non vedevo più niente”.
Rocco: “In quel momento, sembrerà strano, ricordai tutti i miei famigliari, dicendomi che non sarei più tornato a casa: in dieci secondi vidi tutto quanto, la mia vita e quello che lasciavo. Aspettavo l’ultima botta, invece a un tratto mi fermai. Dopo un po’ aprii gli occhi, mi toccai subito in ogni parte del corpo, in fretta. Sentivo male dappertutto, sangue che scendeva dalla faccia: mi trovai aggrappato con le unghie al ghiaccio. Urlavo, non so cosa, forse chiamavo gli altri. Mi rispose Flavio”.
Flavio: “Non si sa come passi il tempo in certi momenti e non posso dire quanto ne sia passato. A un certo punto, mentre mi trovavo in piedi senza riuscire a vedere, mi vennero in mente gli altri. Allora comincia a chiamare Nani, che si trovava a pochi metri da me quando era crollato tutto. Sarà qua in giro, dissi tra me, non ci vedo, ma lui forse mi può vedere. Non rispondeva nessuno. Allora chiamai Livio. Nessuno rispondeva. Cominciai così a rendermi conto che era successo qualcosa di grosso. Poi, mentre chiamavo Livio, proprio in quel momento mi rispose Rocco. Allora, mi dissi, qualcuno c’è. Rocco non si era reso conto di nulla al punto che mi chiedeva cosa fosse accaduto. Si era fermato a trenta metri dalla cresta, ma non lo vedevo, non vedevo niente. ‘Rocco – gli dissi – non ti rendi conto che è andato giù tutto?’. Poi gli chiesi dov’erano gli altri. Mi rispose che non li vedeva e chiedeva a me se vedevo qualcosa. Gli gridai che non ci vedevo proprio. Lui continuò a chiamare, ma più nessuno rispose…
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