“L’È GNÌT GIÒ L’GLÈN”, 100 ANNI E NON ABBIAMO IMPARATO NIENTE

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Stefano Novelli

“L’è gnìt giò l’Glèn”, declamava la gente della valle quella fredda mattina di inizio dicembre. E quella locuzione passava di bocca in bocca come un mantra, risvegliando di soprassalto quei borghi della valle che fortunatamente non erano stati coinvolti nella sciagura.

“L’è gnìt giò l’Glèn”, è venuto giù il Gleno. Quell’imponente muraglia che si stagliava sopra Bueggio e che dominava la montagna, quella che dicevano avrebbe portato benessere e lavoro era crollata, frantumata come fosse argilla, sprigionando i suoi quasi 6 milioni di metri cubi di acqua sulla vallata sottostante. Erano le 7.15 del 1° dicembre 1923.

Uomini, donne e bambini. Vite spazzate via in un lampo da una forza distruttrice mai vista. La Val di Scalve e la Val Camonica si trovarono drammaticamente accomunate da un destino tragico e fatale.

Ma non erano solamente gli esseri umani a perire. La furia dell’acqua spazzava via anche i caparbi tentativi di ripresa sociale ed economica che si cercava di mettere in atto, una specie di reazione naturale alla miseria e alle privazioni patite in tempo di guerra che, grazie a Dio, era appena finita. Il crollo della Diga del Gleno aveva portato via anche la speranza e il futuro.

Successivamente si sono sprecate centinaia di pagine e litri di inchiostro nell’imputare la colpa di quanto successo a un errore di progettazione, all’imperizia dei tecnici o alla qualità scadente del materiale impiegato. Tutto tristemente vero, nulla da dire. Ma non dimentichiamo che la mandante di questa catastrofe annunciata è una sola, e si chiama avidità.

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