LE “VOCI” DEI TREDICI MARTIRI “…dormono, dormono sulla collina”. Così, 80 anni fa, furono uccisi tredici uomini, bollati come “banditi”. L’esecuzione avvenne a Lovere, il 22 dicembre 1943

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Grazia Milesi*

Fu uno dei primi episodi di violenza politica pubblica della Repubblica Sociale Italiana, creata e sostenuta dai tedeschi che avevano invaso e occupato l’Italia del Nord dopo l’8 settembre 1943. Si volle dare una lezione alla popolazione di Lovere e dei paesi vicini per colpire chi osava sfidare le direttive della RSI che, su istruzioni del Reich, rifiutava di riconoscere l’armistizio firmato dall’Italia, affiancandosi – per un capovolto senso dell’onore – all’esercito della Germania nazista, saldamente insediato nell’Alta Italia.

Così furono uccisi tredici uomini, bollati come “banditi, teppisti da bassifondi, emuli del disperato gangsterismo statunitense”, accusati di aver ucciso due esponenti di spicco del vecchio Partito Nazionale Fascista e del rinato Partito Fascista Repubblicano durante le azioni del 29 novembre, previste a Lovere dalla strategia dei due comandanti partigiani, Eraldo Locardi, monarchico, e Giovanni Brasi, comunista, per dare un segnale chiaro che non tutto il paese accettava di stare sotto il tallone nazista né condivideva il servilismo fascista.

I Tredici furono catturati con l’aiuto di una spia, tale Ninetto Vaccaro, infiltratasi abilmente nella banda dei Patrioti Loveresi, nata dalla fusione dei due gruppi partigiani del Nord e del Sud del lago d’Iseo: sette furono presi nel rastrellamento nazifascista del 7 dicembre e sei nei giorni seguenti, sorpresi nelle loro case a Grumello del Monte e a Milano. Furono portati a Bergamo, incarcerati, torturati e infine condannati a morte. Giunsero sul luogo dell’esecuzione, viaggiando seduti sulle loro bare. Sette di loro furono uccisi a Poltragno, dove era stato colpito il notaio Rosa, ex podestà di Lovere; sei invece, a causa della manifesta opposizione degli operai, furono fucilati non sul piazzale dello stabilimento ILVA – come avrebbero voluto i fascisti: il commissario prefettizio Cortesi era stato ucciso lì – bensì nello spiazzo fornito dal Capo Provincia Giovanni Capitanio, nella sua segheria. 

IL SACRARIO

I nomi dei martiri spiccano sulle stele disposte a cerchio intorno al sarcofago di pietra a definire uno spazio consacrato alla memoria resistenziale, sulla destra di chi entra nel cimitero loverese (qui i loro corpi furono deposti il 17 giugno 1945 con una cerimonia solenne, una volta recuperati dalla fossa, scavata nel 1943 nel “campo sterile” del cimitero di Bergamo).

Con i nomi, spiccano le date di nascita. Tranne Giulio Buffoli, del 1902 e Luca Nitckisc, di cui si conosce solo la provenienza (Berigaluga, in Jugoslavia), appartenevano tutti alla schiera dei giovani cresciuti durante la dittatura e che avevano saputo aprire gli occhi nonostante l’ottundimento prodotto dal fascismo, dimostrandosi capaci di ragionare da sé, scegliendo la disubbidienza alla chiamata di leva della RSI e imboccando la via della montagna.

Ecco la stele del tenente Eraldo Locardi, comandante del Primo Battaglione Badoglio, nato a Milano nel 1920, ventitré anni; segue Salvatore Conti, loverese del 1922, ventun anni come Mario Tognetti, di Grumello; vengono poi Giuseppe Ravelli, nato a Casnigo nel 1923, vent’anni; Andrea Guizzetti, di Lovere, nato nel 1924, diciannove anni come Ivan Piana; Guglielmo Macario (Cinto), loverese, del 1925, diciotto anni come Francesco Bessi di Cazzago S. Martino, e come Vittorio Lorenzini di Telgate. Infine, i più giovani: i diciassettenni Giovanni Moioli, nato a Grumello del Monte nel marzo 1926, e Giovanni Vender, nato nell’ottobre del medesimo anno. Tutti appartenevano a famiglie operaie o di artigiani.

Se ci si ferma davanti a questo sacrario, lo sguardo abbraccia i singoli elementi del monumento, perdendosi anche nella leggerezza del cielo e nel colore delle montagne che fanno da sfondo, specchiandosi nel lago.

Al fruscio del vento che si infila nei rami dei cipressi e fra le foglie delle siepi, sembra di sentire – per effetto dell’immaginazione e della commozione – come un’eco: sono le voci di coloro che ormai da decenni dormono in questo luogo appena rialzato rispetto alla strada, alla fine del “vallone”, continuando a dare testimonianza degli ideali che li animarono contro gli oppressori, mai per rabbia, ma in nome di un comune desiderio di libertà e di un futuro diverso e migliore per tutti.

LE VOCI: ERALDO LOCARDI

Si intende la voce calda e appassionata del ten. Locardi, Longhi.

«Ho combattuto nel Regio Esercito Italiano, credendo di fare il mio dovere mentre aggredivo, ubbidendo agli ordini, la Grecia e l’Albania, rimanendo ferito. Dopo la caduta di Mussolini, quando l’esercito venne abbandonato a sé stesso, capii che la Patria non era quel nome per cui si assalivano con le armi altri popoli, in nome di un disegno politico di conquista, bensì quella realtà che era motivo d’onore difendere dalle spire del nazifascismo. Lì avrei voluto che vivessero mia moglie e mia figlia.

Perciò, dopo l’8 settembre, raccolsi altri militari, desiderosi di battersi come me contro gli occupanti tedeschi e i fascisti traditori della patria.

Confermo ancora oggi quanto dissi ai miei uomini, quando ci raccogliemmo in banda. Guai se avessimo lasciato che la Bestia vincesse. Scegliemmo una guerra di soldati tutti volontari, non obbligati da nessuno, ma spinti solo da un profondo senso dell’onore.

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