Il paesaggio è desolante. L’asfalto squarcia in due le file interminabili di stoppie. Qualche mese fa erano piante di mais rigogliose e verdi, ora sembrano avamposti della disperazione dimenticati nel fango. La terra dorme, sfiancata dalle fatiche dell’iperproduzione. A sinistra campi, a destra pure. Il mio sguardo si perde nella pianura tutta uguale. Di tanto in tanto appare qualche azienda agricola con i silos e le stalle. Vedo una stradina laterale, metto la freccia d’istinto. Pochi metri e fermo l’auto.
Il cancello è spalancato su interminabili capannoni. Davanti agli occhi l’umidità di un mattino d’autunno, la foschia e il cielo grigio. Qualche gallinella razzola nel piccolo pollaio con l’immancabile pianta di cachi nell’angolo. L’ultimo amarcord de “L’albero degli zoccoli”.
Sto per visitare un allevamento intensivo. Oltre 500 vacche da latte e solo 3 dipendenti. Tutto computerizzato, supertecnologico. Nella zootecnia moderna nulla è lasciato al caso. Non c’è posto per la natura, ha tempi troppo lenti, incompatibili con la produzione industriale. Le fabbriche degli animali sono fatte di cemento armato.
Recinti immensi, asettici. Un trattore rabbocca lentamente con la pala il mangime sparpagliato dalle vacche durante il loro banchetto eterno. Un tempo animali sacri della mitologia classica, oggi macchine di carne schiavizzate dal profitto.
Nell’era del capitalismo ogni essere vivente è costretto alla sua logica della follia: “Consumare, produrre e morire”.
Scendo dall’auto e loro si avvicinano alle sbarre. Annusano l’aria curiose, ma diffidenti. Mi sfiorano le mani. Le mucche ci vedono poco, ma hanno sviluppato moltissimo udito e olfatto. Per questo quando avvertono una presenza stabiliscono il primo contatto annusando. Quasi tutte sono Frisone (bianche e nere), a parte alcune Svedesi (marroncine)…
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