“Dopo tutti questi anni, praticamente una vita, trascorsi all’estero, continuo a pensare che Parre è il più bel paese del mondo! Ogni volta che chiudevo le lettere che scrivevo a mia sorella Gina, non so cos’avrei dato per potermi infilare anch’io nella busta e così tornare in Italia, tornare a casa…”.
Adele Cominelli, classe 1942, tornata in Italia a trovare la sorella, ancora si commuove al ricordo di quando, quindicenne, insieme alle sue sorelle, i suoi fratelli e i genitori, Pierina e Giovanni Cominelli, del casato dei Dosséi, ‘il paese più bello del mondo’ dovette lasciarlo, all’alba di un mattino di giugno del 1957. Dalla casa dov’erano nati e vissuti fino ad allora, la cascina ‘I piane’ sul Monte Alino, scesero tutti a Parre sotto per salire sul camioncino del ‘Ceserone’, uno dei pochi automezzi che c’erano allora in paese. La maggiore delle sorelle, Gina, classe 1935, era rimasta a Parre perché si era sposata da poco, e dal momento che la partenza era stata anticipata rispetto al previsto, non aveva nemmeno fatto in tempo a salutare la sua famiglia che partiva per l’Argentina, dove sperava di far fortuna, com’era anche nei desideri di uno zio, Padre Giuseppe Cominelli, missionario salesiano in Argentina, appunto, che aveva proposto ed organizzato la loro emigrazione:
“Ora siamo rimasti in sette, ma quando partimmo noi figli eravamo in dieci, Maria, Andrea, Romano, io, Lucia, Elisa, Savina, Dario, Giampiera e la piccola Emanuela che aveva solo un anno e mezzo. A Ponte Nossa prendemmo il treno fino a Bergamo, e poi da lì raggiungemmo Genova, dove ci fermammo due giorni in attesa di imbarcarci. Come passammo quei due giorni nel porto te lo lascio immaginare, non pernottammo certo in un albergo e mangiammo quel poco che eravamo riusciti a portarci appresso, ma finalmente salimmo sulla nave. Ricordo lo sgomento grande che mi colse al momento di lasciare la terra ferma, la paura che mi metteva tutta quell’acqua e il pensiero di cosa avremmo trovato al nostro arrivo: non ne avevamo la minima idea, sapevamo solo che anche laggiù, in Argentina, avremmo continuato ad allevare mucche e a coltivare la terra, più fertile e più ricca – ci avevano detto – di quella nostra di montagna…”.
Il viaggio in nave dura 20 giorni:
“La nave era strapiena di emigranti come noi, quando si mangiava occupavamo tutta intera una grande tavola e infatti ci prendevano in giro e ci chiamavano ‘la famiglia reale’. Però il cibo, grazie a Dio, non mancava, anche se non era certo di grande qualità. Sbarcati a Buenos Aires l’8 di luglio, per arrivare a destinazione – Juan Pradere, nella colonia La Graciéla, che poi scoprimmo non essere altro che una contradina di 4/5 case sparse nel nulla – ci rimanevano da percorrere altri 800 kilometri in treno, e già quello mi fece una pessima impressione: vecchio e malandato come la ferrovia su cui viaggiava, non facevamo che sobbalzare continuamente, sembrava che avesse le ruote quadrate, come osservò mio fratello Andrea. Le altre cose che mi impressionarono da subito negativamente erano il forte vento che tirava in continuazione; il freddo pungente, perché lì era novembre, mentre noi avevamo addosso solo indumenti estivi, e tutta quella terra pianeggiante, tanta pianura, pianura a perdita d’occhio, nemmeno una collinetta a rompere quell’orizzonte piatto che ci faceva sentire sperduti e disorientati…”….
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