Da ragazza, in paese, era per tutti “la Bèpa”, un ciclone di ragazza: vivacissima, sempre in movimento, di una vitalità ed allegria contagiose, sempre pronta a giocare, a scherzare, a tenere sulla corda i (molti) corteggiatori, uno di quei tipi, insomma, che “tengono su” la compagnia, sempre propensa a nuove esperienze ed a nuove avventure. E le tante responsabilità e il lungo lavoro da Missionaria non l’hanno cambiata granché: adesso, a 89 anni suonati, conserva la ‘verve’ della ragazza che è stata, e, ben lungi dal sentirsi ‘in pensione’, continua la sua missione a Padova, dove insieme ad una consorella eritrea, una proveniente dalla Costarica ed una dal San Salvador ha costituito una piccola comunità al servizio di due parrocchie: “Visitiamo i malati e gli anziani infermi, portiamo loro l’Eucarestia, ci occupiamo dei gruppi giovanili, insomma aiutiamo il parroco che deve seguire due parrocchia da 9.000 fedeli – dice senza mai smettere di sorridere suor Giuseppina Imberti –. Prima che a Padova ero stata ad Arco di Trento, presso la Casa di Riposo delle sorelle anziane, e anche lì mi occupavo delle sorelle ammalate, assistevo quelle ricoverate in ospedale, cercavo di ‘animare’ la vita del ricovero, sempre mettendo a frutto la mia lunga esperienza di infermiera”. Professione che suor Giuseppina, comboniana, ha svolto prevalentemente in Egitto: “Nella Congregazione entrai nel 1961, allora ci chiamavamo ‘Pie Madri della Nigrizia’: frequentai la scuola delle infermiere per due anni a Bergamo e per altri tre feci pratica all’ospedale di Lendinara. Per la verità in quei primi anni scalpitavo un po’, non vedevo l’ora di partire per qualche Missione sperduta in qualche foresta, volevo assecondare il mio spirito avventuroso, mi illudevo di poter rovesciare il mondo come un calzino…Ma i Superiori scelsero per me un’altra strada, quella della semplice testimonianza cristiana in un Paese dove il 93% degli abitanti era di religione musulmana”. Suor Giuseppina parte dunque per l’Egitto: all’ospedale italiano de Il Cairo c’è bisogno di infermiere e lei ci lavora per 7 anni, per passare poi all’ospedale musulmano: “Ma ogni mattina all’ora della Messa, che si celebrava nella casa dove risiedevamo noi suore, i medici musulmani venivano per sentirci cantare, i nostri canti liturgici li attiravano molto….Io avevo cento malati da curare, con 12 infermiere e 12 assistenti da istruire e da seguire nel loro percorso professionale. Avevo imparato l’arabo ed avevo capito che era arrivato il tempo di aprirsi alle altre culture ed alle altre fedi religiose, di cambiare la mentalità del posto per cui fare l’infermiera era per le donne un lavoro vergognoso… E infatti anni dopo, quando si trattò di aprire un altro ospedale musulmano in un quartiere povero e popoloso della città, Aguza, il direttore volle che ci fossero le Suore Cattoliche, e la nostra Madre provinciale, suor Carla, bergamasca anche lei, ci mandò lì come nuova destinazione”. Del resto proprio a Il Cairo il fondatore della congregazione, padre Comboni, aveva posto la sua base nel 1867, dando vita a missioni che diventarono un modello di emancipazione con un’attenzione particolare all’educazione ed alla formazione delle donne, fondata sull’idea del Vangelo che ‘salva’ i popoli e li libera da ogni forma di schiavitù, l’esatto opposto di ciò che facevano gli imperi coloniali. Oggi infatti i Missionari Comboniani, circa 2.000, promuovono la dignità dei popoli e delle culture; difendono i diritti umani dei senza terra e dei senza tetto, curando la formazione scolastica e professionale dei giovani, favorendo la nascita di piccole comunità cristiane e collaborando a rendere le chiese locali sempre più autonome e capaci di autogestione. Ad Aguza suor Giuseppina lavora per 14 anni, sempre alla guida delle ‘sue’ ragazze e tra i suoi malati cui non fa mancare i momenti di buonumore, come quando percorre le corsie col carrello dei medicinali gridando a squarciagola ‘Gelati!!! Gelati per tutti!!’ …: “Non ero in una foresta africana sperduta come avevo sognato – dice – ma avevo l’opportunità di avvicinare tantissime persone, se consideri che l’ospedale ospitava non solo i malati ma anche i tanti parenti che venivano in visita. Non facevo certo opera di reclutamento a favore della nostra religione: la nostra era una testimonianza concreta di solidarietà, di carità, di apertura, di tolleranza: la legge morale accomuna tutte le persone, e Dio è uno solo, per i cristiani e per i musulmani. Certo nella gente coglievo spesso il desiderio di somigliare a noi europei: soprattutto le ragazze cercavano di vestirsi all’occidentale, in ospedale portavano la divisa da infermiere, niente veli ma solo la cuffietta, pantaloni e casacche….E quando noi Suore ci siamo ritirate, nel’96, ero proprio contenta perché nell’ospedale le mie ragazze erano in grado di sostituirci egregiamente”. Nell’89 suor Giuseppina torna in Italia per un periodo di riposo: “Dapprima a Roma per frequentare un corso biblico e gli esercizi spirituali, e poi per 3 anni, a curare le suore che tornavano dall’Africa ammalate, a Verona, a Trieste, a Vicenza, a Legnago, a Negrar. Non ero molto contenta, io volevo tornare in Egitto…
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