PER UNA NUOVA STORIA DELL’INTERNAMENTO MILITARE ITALIANO NEI LAGER (1943-1945) – Quell’8 settembre 1943 e gli “schiavi di Hitler”

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Per gentile concessione dell’autore riportiamo il primo capitolo del nuovo libro dello storico Mimmo Franzinelli “Schiavi di Hitler – i militari italiani nei lager nazisti” (Le Scie – Mondadori). Mimmo Franzinelli, storico del fascismo e dell’Italia repubblicana, membro della Fondazione «Ernesto Rossi – Gaetano Salvemini» di Firenze, è autore di numerosi volumi, fra cui, da Mondadori: Le stragi nascoste, Squadristi, Guerra di spie, Il piano Solo, Il prigioniero di Salò, Il Duce e le donne, Bombardate Roma!, Disertori, Il Tribunale del duce, Tortura, Fascismo anno zero, Il filosofo in camicia nera, L’insurrezione fascista e, con Alessandro Giacone, 1960. L’Italia sull’orlo della guerra civile.

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Mimmo Franzinelli

La storia degli Internati Militari Italiani (IMI) è una vicenda dolente. A distanza di ottant’anni da quel fatidico 8 settembre 1943 che segnò lo sfacelo del Regio Esercito risalta nella sua dimensione tragica, negli abusi di potere che determinarono da parte di Badoglio e del re l’abbandono alla vendetta tedesca della gioventù italiana, sacrificata dall’ambizione criminale del duce in una guerra di conquista e di rapina.

E per poi di più tradita una seconda volta da Mussolini che, rimesso dai nazisti a capo di uno Stato vassallo, li ha lasciati alla mercé del Terzo Reich come ritorsione al rigetto del fascismo da parte della massa dei deportati.

Una storia complessa, che richiede approcci molteplici. Il rilievo delle testimonianze è notevole, e straordinaria la capacità dei reduci di trasmettere ai posteri il patrimonio di sofferenze, stenti e dignità di quell’armata del lavoro forzato.

Ma la ricostruzione dal basso, attraverso parole e scritti di soldati e ufficiali, recupera soltanto un aspetto – per quanto importante – del composito mosaico del 1943-45, nel quale ebbero parte fondamentale le strategie diplomatiche di governi, l’atteggiamento dei Comandi militari, l’orientamento delle popolazioni…

Serve dunque una ricostruzione articolata su più piani, per dare giustizia a quella che è stata «una lotta non armata, ma non inerme», per dirla con Vittorio Emanuele Giuntella, egli stesso deportato, e successivamente studioso dell’internamento

Gli oltre seicentomila Internati militari italiani, sono figli di un dio minore. La loro sorte, sin dal momento della cattura e poi dell’utilizzo forzato come preda bellica, è stata quella della trascuratezza e della dimenticanza, in quanto scomodi per chiunque.

Il governo Badoglio, che ha abbandonato le Forze Armate alla mercé dei tedeschi, ha ben altre priorità che la tutela di soldati e ufficiali pur prevalentemente ostili ai nazifascisti. Per la Repubblica di Salò, essi rappresentano la più clamorosa smentita della legittimità del governo collaborazionista, rifiutato in massa nonostante lusinghe e minacce. Per gli Alleati, essi sono ex nemici, della cui sorte non ci si preoccupa, accampando ragioni di forza maggiore. La Croce Rossa Internazionale accetta la situazione di fatto preordinata dai capi del Terzo Reich: il disconoscimento dello status di prigionieri di guerra, con la cancellazione delle garanzie che ne conseguirebbero. La Segreteria di Stato della Santa Sede – attraverso la Nunziatura apostolica a Berlino e la Pontificia Commissione Assistenza Reduci – s’interessa di loro, ma deve sottostare ai Diktat germanici, che stendono attorno agli IMI una barriera impenetrabile.

L’odissea degli internati militari italiani è rimasta a lungo trascurata, sottovalutata, fraintesa. In parte, ciò è dovuto alle difficoltà di trasmettere un’esperienza – quella della deportazione, della fame, del lavoro forzato, in condizioni d’isolamento dalla patria e dai propri cari – quanto mai ardua da descrivere. Per dirla con Giovannino Guareschi, spiegare caratteri e senso di questa forma particolare di prigionia, «è perfettamente inutile»: «per comprenderla bisogna averla vissuta» (eppure, le sue descrizioni della vita dietro ai reticolati toccano nel profondo l’animo del lettore).

Vi sono ulteriori fattori da considerare. Anzitutto, i condizionamenti ideologici della guerra fredda. Poi, la visione riduttivamente militare del movimento partigiano che ha oscurato la vicenda degli IMI, protagonisti di un’altra forma di Resistenza, non meno densa di sacrifici.

Gli ottant’anni trascorsi dalla fine della guerra, possono dividersi nettamente – sul piano della memoria – in due fasi: un quarantennio di rimozione del trauma, e un quarantennio di riemersione, in un contesto non più distratto ma attento e comprensivo.

Nella seconda metà degli anni Ottanta, infatti, vi è stato un notevole risveglio d’interesse sull’internamento militare. Se per un quarantennio la storiografia era distratta e la memorialistica contava su poche pubblicazioni (quasi sempre a spese degli autori o comunque di limitata circolazione dato il carattere artigianale di molte edizioni), con l’assottigliarsi del numero dei testimoni, i reduci – o i loro familiari – sentono il bisogno di uscire allo scoperto con diari e testi autobiografici.

In sintonia con l’evoluzione della memoria pubblica, al superamento della fase catacombale dei reduci dall’internamento corrisponde un boom editoriale ancora in corso, di pari passo alla valorizzazione degli IMI nel Pantheon della nazione, su impulso dei presidenti della Repubblica, da Pertini a Mattarella.

Gli storici riservano finalmente maggiore attenzione al tema, dapprima in alcuni convegni di studio e poi con monografie generali o specifiche, con l’emersione delle memoria dell’«altra Resistenza» in un’Italia immemore, ingenerosa con i reduci.

A livello istituzionale invece – in un’ottica minimizzante – si è affrontata assai in ritardo la questione del risarcimento per il lavoro schiavistico prestato dai deportati nel 1943-45, con risultati assolutamente deludenti. Come pure deludenti si sono rivelate iniziative ufficiali sul genere della Commissione storica italo-tedesca istituita dai due governi (da parte italiana, con componenti «lottizzati» – secondo logiche già praticate nel 2003-2006 per i consulenti dalla «Commissione parlamentare d’inchiesta sulle cause dell’occultamento dei fascicoli relativi a crimini nazifascisti»). I suoi lavori si conclusero nel 2012 con un Rapporto condizionato dalla ragion di Stato e poco significativo sul piano storiografico.

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