Don Alessandro Gipponi ha lasciato la Parrocchia di Predore, ha lasciato la Chiesa per un anno sabbatico, poi si vedrà, ma la sensazione è che don Alessandro non tornerà sui suoi passi. Qualche mese fa, a febbraio, lo avevamo intervistato perchè aveva deciso di ospitare due ragazzi venezuelani. Poi si è scatenato un polverone, lui ha spiegato in chiesa a Predore i motivi del suo addio e così gli abbiamo chiesto se se la sentiva di raccontare quello che provava e quello che era successo. Ecco le sue parole.
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«O soccombere o reagire. Io ho deciso di reagire. Io penso di non riuscire ad essere diverso da ciò che sono. Per essere me stesso è bene che mi prenda un periodo per capire se c’è posto all’interno del clero e quale posto. Se non ci sarà, continuerò a fare del bene in altri modi».
Don Alessandro Gipponi spiega così la sua decisione di prendersi un periodo sabbatico. Finito il suo incarico come arciprete a Predore, infatti, il parroco ha scelto di guidare nessuna altra comunità e prendere del tempo per sé stesso. Per staccare e riflettere.
«Ho finito il mio mandato qui. È 10 anni che sono a Predore». Continua Don Alessandro: «Il mio problema non è Predore. Io non scappo da qui, ma ho necessità di staccare. Quest’ultimo anno è stato “regalato”. Quindi non ci sono scandali e non ci sono punizioni. Un paio di mesi fa ho annunciato che ci sarebbe stato un cambio, in maniera naturale. Nel frattempo ho chiesto un periodo di stacco per dedicarmi ad altri progetti. Questa idea di fermarmi un attimo l’ho maturata da anni. Non è una scelta di quest’ultimo periodo. Staccandomi un attimo voglio capire quale è la mia collocazione come prete nella Chiesa. Non mi sento molto da parrocchia, sono più da frontiera. Io non ho in giro niente, nessuna relazione. È solo il mio desiderio di prendermi del tempo. Perciò ho preso l’occasione che c’è per cambiare, così ho deciso di non andare per ora in nessuna parrocchia. Visto che in 19 anni di sacerdozio non ho mai staccato, sentivo proprio questa necessità per capire come collocarmi all’interno del mondo del clero. Io sono un po’ anomalo. Sono diverso dal prete-standard. È una mia scelta, una mia richiesta, perché la sento come necessità. Dall’altra parte hanno cercato di convincermi che sono prezioso e che devo restare. So che c’è bisogno di parroci, ma se un don non sta bene nei suoi panni non serve a niente. Fa del male a sé e agli altri».
Don Alessandro è stanco, ma disteso. Un anno fa ha accolto nella sua casa Brayan e Christopher, due ragazzi venezuelani scappati dalla dittatura di Nicolas Maduro. Il parroco, classe 1976, vuole spegnere le polemiche e i pettegolezzi circolati attorno a questo suo atto di umanità: «Essere un prete vuol dire essere una figura pubblica. Sull’episodio dei ragazzi qualcuno ci ha marciato su con fantasie a cui ho risposto: “se queste cose siete soliti farle voi, non vuol dire che le faccia io”. Io non riesco a essere impermeabile, ho molta sensibilità. Questo fango nei miei confronti è stato come veleno che mi è entrato in circolazione e mi ha fatto veramente male. Ho solo cercato di rendere più vivibile la vita di qualcuno. ….
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