di Luca Mariani
«Io Aaron non l’ho mai sentito il figlio adottivo. L’ho sempre sentito mio come gli altri tre. Anzi, forse mi sento più mamma con lui perché per partorirlo ci sono voluti cinque anni.» Gli occhi celesti e vispi di Daniela Brescianini brillano di commozione. Le lacrime che sgorgano scivolano su un sorriso pieno e sincero. «Dal primo giorno che l’ho preso in braccio l’ho sentito proprio mio. Voglio un bene dell’anima anche agli altri tre figli, ma con Aaron c’è un legame fortissimo, che non è di sangue, è di più: è di pancia, è di cuore. Lui è stato un regalo. È arrivato qui che era uno scricciolino bellissimo.»
E quel giorno è nell’autunno del 2009. In quel periodo la casa di Daniela e suo marito Massimiliano Andrioletti è più movimentata del solito. Oltre alla prima figlia Silvia e ai due gemelli Francesco e Gabriele, vive con loro la nonna materna con problemi di deambulazione. Malgrado il trambusto la coppia di Premolo decide di accettare la richiesta delle assistenti sociali che conoscono Max tramite il Centro Aiuto alla Vita di cui è promotore: il compito è tenere tutto il giorno Aaron, un bimbo di soli due mesi, con genitori originari del Ghana, perché sua madre deve andare in tribunale.
«La mattina alle sei siamo andati a casa loro. Appena ho aperto la porta, la madre non mi conosceva, ma mi ha detto “tienilo, io torno stasera” come fosse un bambolotto. Io non sapevo cosa dovesse mangiare, quale latte avrei dovuto dargli, cosa avrei dovuto fare se piangeva e quando avrebbe dovuto dormire. Erano passati quasi dieci anni da quando avevo i miei figli così piccoli, perciò non ero così fresca con i neonati. Allora lo abbiamo portato qui a casa. C’erano i miei tre primi figli che mi aspettavano con mia mamma. Erano tutti sul divano. Appena l’hanno visto si sono innamorati. Litigavano per tenerlo. Non volevano andare a scuola, ma li ho mandati, anche per fare vivere un po’ di normalità al piccolo.»
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