PREMOLO – LA LETTERA – Nel ventre della Bestia, considerazioni inferocite sulla gestione coronavirus

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di Sara Agostinelli

Sono bergamasca e sono ammalata, presumibilmente di Coronavirus.
Leggo ancora post in cui si citano esperti che tranquillizzano: “L’80 per cento della popolazione sarà colpita dal Coronavirus ma non preoccupiamoci, per buona parte sarà solo un’influenza. La mortalità è bassa e colpisce soprattutto anziani e persone con patologie pregresse”.
Oggi 14 marzo. Ancora queste stronzate.

Non sono scienziata né statistica ma sono incazzata nera: ho il terrore che fuori da qui non si stia capendo cosa ci succede. Qui si muore come mosche. E’ chiaro?
Decine di morti al giorno. Decine e decine.
Il cimitero della città non riesce a smaltire i corpi. I campanili dei paesi non suonano più le campane a morto perché lo farebbero ininterrottamente. I medici sono esauriti o contagiati, e cominciano a morire a loro volta.

Siamo tutti malati, o quasi. Tre quarti dei miei conoscenti sono malati, amici, parenti, colleghi, medici di famiglia stessi.
Abbiamo febbri molto lunghe e resistenti, molto provanti, dolori forti in varie parti del corpo, mancanza di respiro, tossi e raffreddori portentosi. Non per tutti è così, per fortuna.
Ma questo non vuol dire che si possa parlare di “banale influenza”. Banale influenza sto cazzo.
Tre settimane di febbre, stanchezza allucinante, mal di testa, respiro corto, resistenza a qualsiasi medicina, il fantasma della terapia intensiva sempre sulla spalla come un corvo malefico e, ovviamente, isolamento e solitudine: non è una banale influenza. E mi considero altamente fortunata.

Le giornate passano in buona parte al telefono: bollettini medici continui. Come stai, oggi un po’ meglio, domani un po’ peggio, come sta il papà, la zia, l’amico, l’amica, ma tu cos’hai, io ho questo, ah ecco sì me l’hanno detto in tanti allora probabilmente ce l’hai, sì sì mi sa che ce l’ho.
Qui ci auto-curiamo, da soli, quando va bene riusciamo ad avere qualche indicazione telefonica, perché anche i medici di famiglia non ce la fanno a seguirci tutti.
Le sirene non si fermano mai fuori dalla finestra, notte e giorno, e se chiami il 112 non riescono a risponderti prima di chissà quanto tempo. E ti portano in ospedale quando ormai sei grave.
Perché non c’è posto. Perché non ce la fanno a curarci.
I tamponi sono riservati a chi arriva in pronto soccorso (e a segretari di partito e calciatori), gli altri devono desumere, immaginare e, nel dubbio, isolarsi in quarantena, così anche chi potrebbe magari avere davvero una “banale influenza” deve rinunciare ad aiutare chi ha bisogno, i genitori anziani ad esempio…

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