“Ho letto sull’ultimo numero di Araberara un articolo su ebrei salvati, e credo possa completare il quadro la notizia che documento sull’ospitalità data dal parroco di Rovetta.
La ringrazio pure per la ricerca pubblicata da voi sui fatti di Rovetta, Il 31 ottobre 1943 bussarono alla porta della canonica di Rovetta due famiglie ebree, cinque persone, e chiedevano protezione. Il parroco don Giuseppe Bravi, la sorella Maria e la nipote Ines li accolsero e li ospitarono sino al 25 aprile 1945. La nipote di don Bravi di nome Ines, oggi vive a Padova in un istituto delle suore Dorotee, e si chiama Suor Carmelina, ha compiuto 93 anni il 25 dicembre. Le ho chiesto di scrivere alcune note sui fatti di Rovetta e gli ebrei. Nelle foto don Giuseppe e una delle lettere scritte da una delle famiglie, che annunciavano la visita all’anziano sacerdote per far conoscere alla figlia i loro salvatori. Questo è solo un piccolo esempio di ciò che ha fatto la chiesa su invito del proprio Vescovo e di papa Pio XII. Come Rovetta anche Clusone e Gandino hanno accolto famiglie ebraiche. Non tutti sono annoverati giusti dagli uomini, ma lo sono davanti a Dio”.
Don Adriano Bravi
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Questa la lettera inviatami nei giorni scorsi con le foto. Cerchiamo di ricostruire i fatti. Abbiamo scritto del volume “Ricordate che questo è stato” di Mino Scandella che racconta le storie delle famiglie ebree internate a Clusone tra il 1941 e il 1942 e da qui inviate in varie località della valle, quando le autorità fasciste clusonesi protestarono per la presenza di queste famiglie che compromettevano la nomea “turistica” della città baradella. Il 5 ottobre 1941 arrivò a Clusone Israel Szafran con la moglie Lilly Bratspiess. Erano giovanissimi, lui 24 anni, lei 21. Lui era un veterinario e proveniva dalla Polonia, “fuggito in Italia già dal 1937, aveva frequentato l’università di Pisa. Internato nel ‘40 a Ferramonti, aveva sposato Lilly, anche lei polacca di Bielsko, nella regione della Slesia, annessa al Reich nel 1938 con la conseguente cancellazione della consistente presenza ebraica ivi residente” (dal volume citato di Mino Scandella – pagg. 50-51).
E sempre dal prezioso volume di Scandella apprendiamo che a Clusone “alla fine del ‘41” erano registrati “nelle schede provvisorie dell’anagrafe comunale e nelle obbligatorie cartelle per gli internati 35 ebrei”. E ancora: “Il Podestà del comune – a Clusone c’era il commissario prefettizio – era equiparato al direttore di un campo di concentramento”. Non potevano uscire dal paese, non potevano uscire di casa prima dell’alba e dovevano rientrare al suono dell’Ave Maria, non potevano ospitare gente in casa, c’erano tre appelli giornalieri, mangiare in casa e tenete una “buona condotta”, senza parlare di politica o ascoltare la radio, la posta era controllata e censurata e non avere in tasca “oltre 100 lire”. Avevano una carta annonaria per i viveri solo di “assoluta necessità”. Ricevevano 50 lire mensili e sussidi giornalieri di 8 lire per il capofamiglia, 4 per la moglie e 3 per ogni figlio….
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