(ar.ca.) Marina, 60 anni, segno zodiacale dei Pesci, innamorata di Rovetta e di una vita davvero a mille all’ora. Marina Rossi a Rovetta vive da ormai da molti anni, lei, nativa di Milano, da ragazzina a Baggio, quartiere milanese, poi si è trasferita a Comazzo, un paesino del Lodigiano: “Uno sperduto paese – racconta Marina – piccolissimo, e quando i miei genitori sono andati in pensione, hanno venduto tutto e sono venuti qui e io mi sono innamorata di Rovetta”.
Marina, che combatte con problemi di salute, una battaglia faticosa ma con un’arma di quelle che fanno la differenza, il sorriso e la gioia addosso, vive a Rovetta con suo marito, anche lui con qualche acciacco: “Ho cinque figli, che vanno dai 36 ai 28 anni, sei figli in nove anni. Il primo è Samuele che mi ha anche reso nonna di due bimbi, Tommaso, 34 anni che vive in Inghilterra, a Manchester, un manager della cyber security, Maria, 32 anni, di Grassobbio, infermiera, Alba, 31 anni, terapista della riabilitazione psichiatrica nel Pavese, poi ci sarebbe stato Beniamino che però purtroppo non è sopravvissuto, nel 1994 è nata Lucia, adesso laureata in Legge, vive e lavora a Edimburgo”.
Insomma, una famiglia di quelle davvero atipiche, tutti e cinque i figli di Marina sono laureati con il massimo dei voti: “Anche perché senza Borse di Studio non avremmo avuto i soldi per farli studiare. Hanno frequentato tutti l’Università di Pavia, una città stupenda per chi studia, sono felice di saperli felici”.
Marina e suo marito Davide si sono conosciuti sui banchi dei Liceo Scientifico, si sono innamorati e sposati, una vita insieme. Marina è venuta a trovarci in redazione, ha scritto un testo bellissimo su se stessa, un viaggio in ospedale, per una risonanza alla testa, un misto di ironia e dramma, da gustare dall’inizio alla fine, la sanità è anche e soprattutto questo, un grande caos dove le donne come Marina, non solo la prendono con filosofia ma la raccontano un un’ironia unica. Leggetelo.
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«LA SALA H E IL TEMPO MINIMO. Ho un appuntamento per una risonanza alla testa nel Grande Ospedale. Come al solito, arrivo con un grande anticipo. Nel CUP c’è poca gente – è sabato – anzi , siamo solo in due: una signora assorbita dal suo cellulare ed io. C’è un’unica impiegata allo sportello 8 che, dopo pochi minuti, chiama il mio numero, il 34. Mi dirigo verso di lei, ma l’altra signora, ritornata fra di noi all’improvviso, fa uno scatto felino, mi supera e, in un attimo, è davanti al “mio” sportello. Sento che parlottano – si starà scusando per non aver visto il suo numero? Probabilmente il 33… ? – sono un po’ lontana, non sento e poi vedo la signorina che comincia il suo lavoro. Neanche il tempo di pensare al da farsi che, sul tabellone, esce ancora il mio numero, stavolta associato allo sportello 6, dove però non c’è nessuno… Boh… Mi avvicino lo stesso e, quando sono quasi davanti al vetro, vedo materializzarsi una ragazza, trafelata. Non si è ancora seduta che PIM! schiaccia un bottone e sul tabellone scompare il numero 34 doppio e appare il 35. Perplessa dico: – Buongiorno, guardi, io sono il numero 34, ma… – Senta, io adesso devo fare il 35 – Certo, ma il 34 è… – Senta, facciamo così, se non c’è il 35 faccio lei, OK? Ha la voce un po’ affannata, alzata di un tono, come chi ha corso o è teso, decido di tacere. Lei si avvicina più che può al vetro e grida rivolta alla sala deserta: – Trentacinqueeee, trentacinqueeeee! Per fortuna il 35 non c’è e, come promesso, comincia a fare me, anche se un po’ seccata. Mi consegna dei fogli, pago e poi dice: – Vada in sala G, la chiameranno loro.
Conosco già la sala G. In questo ultimo anno ho dovuto fare diverse risonanze, quindi mi dirigo sicura verso la mia meta, che si trova a metà di un lunghissimo corridoio. E’ strano oggi il Grande Ospedale, non ci sono mai venuta di sabato: corridoi infiniti semi-deserti, poco rumore… Anche la sala G non sembra la stessa: è vuota, semibuia. Approfitto del bagno – non ho più la vescica di una volta e vengo da lontano, conosco ormai tutti i bagni disponibili nel raggio di 40 KM da casa. Anche nel Grande Ospedale ho i miei preferiti – e poi aspetto.
Purtroppo non posso sedermi. Ho subìto un’operazione ai nervi spinali che è stata un successo, ma stare seduta è ancora molto doloroso quindi, dopo aver guidato per un’ora per raggiungere l’H, ho esaurito la mia tolleranza giornaliera alla seduta e passeggio avanti e indietro.
Sono un tipo abbastanza paziente, soprattutto fuori casa e, di solito, una volta raggiunta la mia destinazione, mi rilasso e cerco di godermi eventuali cose divertenti o interessanti che possano capitarmi, tipo socializzare con qualcuno o guardare la variopinta umanità che mi circonda.
Ma stavolta non c’è proprio niente di interessante. Sono completamente sola. A furia di fissare i muri, mi accorgo di un foglio appeso, che recita: PRIMA DI ACCEDERE ALLA SALA G, RECARSI IN SALA D. Ah! Ecco svelato l’arcano… Non viene nessuno perché non sanno che sono qui, bisogna prima registrarsi in sala D! Strano però che la signorina del CUP non me l’abbia detto, controllo il foglio: c’è proprio scritto SALA G.
Vado comunque alla ricerca della sala D. E’ facile. Il lunghissimo corridoio che ho appena percorso comincia con la lettera A, vado a ritroso ed ecco la sala D. Non c’è nessun operatore, solo due signori seduti, che fissano il vuoto. Mi guardo in giro, aspetto un po’, poi decido di tornare nella mia sala G. Aspetto. Aspetto. Ad un certo punto comincio a pensare che ci sia qualcosa che non va. A quest’ora qualcuno avrebbe dovuto palesarsi, oltretutto l’orario del mio appuntamento si avvicina. C’è una porta a vetri con la scritta TAC, sbircio, vedo una stanza con la luce accesa, magari c’è qualcuno. Busso. Niente. Ribusso. Silenzio. Non oso aprirla perché c’è scritto in grande : “SOLO PERSONALE AUTORIZZATO”.
Allora passo all’altra porta, quella con scritto RMN, la mia… Anche qui c’è scritto : “SOLO PERSONALE AUTORIZZATO”, ma è aperta, anzi spalancata, entro quindi esitante guardandomi intorno, poi allungo il passo e percorro un altro corridoio lunghissimo con tante piccole stanze ai lati, deserte. Finalmente vedo una figura umana, bluvestita. Un signore della mia età, capello grigio più, capello grigio meno, che mi apostrofa: – Che ci fa qui? – Buongiorno, scusi… Mi hanno detto di aspettare in sala G, ma… – Se le hanno detto di aspettare in sala G, aspetti in sala G! Anche lui è scocciato, evidentemente indaffarato. – Sì, sì, ma non c’è un’anima e…
Mi guarda infastidito: – Chi è lei, cosa deve fare? – Mi chiamo Rossi e alle 10 devo fare una risonanza alla testa. – Vada in sala G e aspetti lì. …
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