L’asfalto brucia di cielo. Il sole invece sbatte ovunque. La ringhiera arrugginita color mattone si apre in piccoli cancellini che danno su alcune scale con più ingressi.
Ne imbocchiamo uno e suoniamo. Non risponde nessuno. Ritentiamo. Si affaccia un ragazzo, un profugo, non parla italiano, ci fa segno di fare il giro dal dietro. Aggiriamo la palazzina dove la scritta ‘Hotel’ è coperta con cellophane nero, e arriviamo sul retro. Saliamo le scale. La porta è aperta. Suoniamo: entriamo. Un salone con alcuni ragazzi, tre seduti davanti a un pc, altri che arrivano e ci guardano incuriositi. Si intravede una grande cucina attrezzata. Arrivano due ragazze. Le operatrici della cooperativa. Sorridono. Parlano correttamente le lingue e sono le ‘angeli custodi’ di questo gruppo di ragazzi, 25, in una struttura che basta muoversi un po’ dentro per capire che è gigantesca. Sono loro, questi ragazzi, questi volti e sguardi impauriti, il ‘pericolo’’ che qualcuno continua a denunciare. Ma forse bastava varcare quella soglia. Guardarli in faccia. Parlarci e poi uscire. 25 ragazzi, arrivati da poco tra Lampedusa e la Sicilia. 15 dal Bangladesh,7 dalla Nigeria e 3 dal Ghana. parlano inglese. Spiaccicano pochissime parole di italiano. Appena arrivati. Con storie dure alle spalle nonostante i pochi anni addosso, vanno tutti dai 18 ai 28 anni. Canottiere e magliette che qualcuno di qui gli ha regalato, alcune con la scritta di ditte edili della zona, bermuda e infradito, fa caldo. Sorridono e ti buttano addosso occhioni impauriti. Le due operatrici cominciano a raccontare, i ragazzi anche, storie di umanità che vanno a sbattere contro gli stereotipi che circolano in zona (…)
SU ARABERARA IN EDICOLA PAG. 14