Come ogni anno. Anche quest’anno. A raccontarsi sono loro. Donne con il cancro al seno. Per dare un segno, di quelli che restano, più del nastrino rosa, un segno fatto di parole e sogni, di paure e sorrisi, in ogni caso di vita. Ottobre è il mese della prevenzione per il cancro al seno. Facciamo prevenzione, la prevenzione rende contagiosa la salute, non la malattia.
Ecco qui sotto la storia di Francesca Brasi di Rovetta:
4 settembre 2014. Era strana quell’estate. Grigia, fredda e piovosa, con certi acquazzoni a rischio annegamento. Cercava di uscire dal calendario che la teneva prigioniera, chiusa, stretta stretta, tra una primavera e un autunno anche loro freddi e piovosi. Io mi trovavo, come direbbe Dante: “nel bel mezzo del cammin di nostra vita …”. 50 anni compiuti ad aprile, soddisfatta per alcune piccole gratificazioni lavorative, di buon umore per aver perso peso senza aver fatto nessuna dieta e, soprattutto, nessuna fatica. Poter indossare finalmente con disinvoltura una maglietta vecchia, vecchissima, ma da me tanto amata, “perché mi fa sentire un po’ più giovane, un po’ più incosciente, un po’ più ragazzina”. Ma soprattutto, avevo l’allegra e ingenua convinzione di aver già attraversato “la selva oscura”. Era difficile cancellare dal presente un passato che portava con sé gli ultimi istanti della vita di tuo fratello spentasi sul caldo asfalto di una notte d’estate. Un passato che insisteva ad essere presente nel sorriso di tua madre che era sorgente incontaminata perché ti sollevava l’anima e ti faceva sentire tutto il suo amore per la vita in ogni cosa che faceva, spentosi in un battito di ciglia. Un passato altrettanto presente come una carezza dedicata senza fretta alla lunga malattia di tuo padre, sopportata “gustando” intensamente ogni singolo attimo. Un passato che aveva impedito per anni di pensare serenamente al futuro. Questa la mia “selva oscura” dalla quale, coltivando sogni e desideri, intravedevo luci, stelle colorate e coccole a colori. E speravo di averla abbandonata.
Ma non era così.
Un fulmine, sotto forma di telefonata, all’improvviso attraversò e tagliò come una lama uno dei pochi giorni di cielo sereno di quella strana estate un po’ grigetta, la voce di una donna dal tono che non ammette repliche, mi ordina di presentarmi il mattino seguente in ospedale per un controllo più approfondito in seguito allo screening mammario eseguito alcuni giorni prima.
Le sfumature di grigio intenso che quella strana estate portava con sé e che le impedivano di decollare, cominciavano a starmi antipatiche come la donna della telefonata.
Siccome non stavo a girarmi i pollici, mi presentai al controllo solo alcuni giorni dopo, sperando di non trovare la donna dal tono imperativo e… fortunatamente fui fortunata!
La donna che trovai ad aspettarmi, nonostante avesse un tono più gentile e sfoderasse un sorriso smagliante, nel farmi accomodare in una sala d’attesa piena di altre donne di età svariata, mi mise una piccola pulce nell’orecchio chiedendomi se ero venuta accompagnata, dal momento che, per eseguire alcuni esami, avrei dovuto fare una piccola anestesia.
Non mi ero ancora seduta sulla sedia in quella sala d’aspetto, ma già ne ero caduta. Pensandoci bene non sapevo neanche perché ero lì, e in quella manciata di secondi ho visto la mia vita passarmi accanto e percepivo a pelle la sensazione di non avere più tempo per niente. Neppure di meravigliarmi, commuovermi o disperarmi. Mi ritrovai ad ascoltare il mio respiro e sentivo l’aria che entrava e usciva dalle narici. Entrambi avevano un suono delicato, un profumo di libertà e un sapore di scoperta, entrambi raccontavano storie divertenti e piccole magie. Volevo averlo il tempo, perché dovevo imparare a fare ancora tante cose: lavarmi i denti con la mano opposta alla solita, iscrivermi ad un corso di danza indiana, imparare almeno otto parole di giapponese, e poi e poi e poi…
Sempre in quella manciata di secondi e cercando di carpire dai visi delle altre donne in attesa, alcuni segni del tipo: “… stai serena è troppo presto per preoccuparsi…” , la donna dal sorriso smagliante gridò a squarciagola il mio nome, presentandomi così a tutte, aggiungendo che chirurgo/senologo e primario mi aspettavano nello studio a fianco. Mi sentii improvvisamente pesante e ci misi una vita ad attraversare quei pochi metri di sala d’attesa.
Ero un pò spaventata e allo stesso tempo compressa in un vortice di emozioni, riuscii solo a pensare che non avevo nemmeno fatto a tempo a dire alla donna del sorriso che sì, ero venuta accompagnata, ma che avevo mandato mio figlio a fare la spesa all’Iper.
Guardavo i volti seri seri dei medici, li sentivo parlottare senza capire nulla mentre eseguivo senza batter ciglio tutto quello che mi dicevano di fare. Loro, con velocità e destrezza facevano altrettanto e ebbi il vago sospetto, guardando le loro espressioni facciali, che non dovevano aspettare il ritorno di nessun esito. Sapevano già!
Uno dei due portava il cognome di un noto dongiovanni e, per sdrammatizzare e allentare la tensione, ci scherzò sopra facendo strane allusioni ad alcuni metodi infallibili di corteggiamento. L’altro era proprio un bel tipo e sapeva di esserlo! Sembrava anche lui un ragazzino e a me venne in mente la mia vecchia vecchissima maglietta. Aveva, ad occhio e croce, qualche anno in meno di me, brizzolato quanto basta per essere affascinante, occhi chiari e furbi, portava degli occhialini alla Geronimo Stilton e aveva un sorriso che non lascerebbe scampo a nessuno, e, soprattutto, dava del gran filo da torcere al suo collega sopracitato.
Disse che invidiava il coraggio, la grinta e la forza con cui le donne affrontano diagnosi terribili, che a volte non lasciano scampo e ammise di aver imparato l’amore per la vita proprio dalle donne di cui si è preso cura. Per questo e, non per le sue doti di seduttore, mi ispirò subito fiducia e simpatia. Disse che la sua esperienza chirurgica l’aveva maturata lavorando nell’ospedale della zona da cui provengo, seguendo un chirurgo molto attento, bravo e stimato in tutta la mia vallata. Il passato della mia “selva oscura” si fece di nuovo presente quando, dalle sue affermazioni, colgo che era lui, proprio lui, il dottore gentile che mio padre incontrava nelle sue visite di controllo, dalle quali tornava sempre con esiti pessimi, ma discretamente di buon umore perché il medico con cui aveva a che fare aveva grazia nel parlare, ispirava fiducia e dava stimoli per reagire e continuare. Stranamente mio padre non riusciva mai a ricordarsi il suo nome, ma sosteneva che aveva a che fare con un vaso di fiori che mia madre tanto amava….
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