SPOON RIVER – NEMBRO – Andrea, quella notte di giugno in sella al suo scooter, Leone e Carlo e la passione per le vette, Salvatore e i suoi pazienti, Maria Teresa e Giulio…

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Luca Mariani

«Me ne sono andato in sella al mio scooter. Era una notte di fine giugno. Avevo poco più di trent’anni. La prima a vedere il mio corpo insanguinato accasciato sull’asfalto scuro è stata la mia fidanzata. Anche lei tornava a casa. Eravamo stati insieme al bar a ridere e scherzare con i nostri amici». Andrea Botti è al mare, ciabatte, costume, maglietta leggera e le braccia allargate come a voler volare sopra la felicità di quell’attimo reso eterno da questa fotografia che si staglia al centro della sua tomba nel cimitero di Nembro. Il marmo grigio scuro è ritagliato a forma di cuore. Lo skyline in bianco di città Alta attraversa la base della lapide. Davanti campeggia lo stemma argentato dell’Atalanta firmato e voluto da “i tuoi amici”. «Sì. La Dea era la mia grande passione. La seguivo sempre allo stadio. Sia in casa che in trasferta. Quanto mi ha fatto emozionare il corteo che i miei amici di Nembro e della curva hanno organizzato per salutarmi. Adesso ricordatemi sempre “umile dal sorriso sincero”». Così la scritta apparsa sullo striscione che ha abbracciato il suo feretro tre estati fa, ora è scolpita e indelebile sul suo marmo grigio.

Il sole fatica a trovare spazio. Le nubi si stanno schiarendo ma restano pesanti, nonostante la molta pioggia scagliata nel corso della notte. Le tuie di via delle Rimembranze sono ancora cariche di gocce. Così anche i fiori lilla del ciclamino, le eriche non ancora fiorite e i petali socchiusi delle gazanie. «Qui riposo dal luglio 1958. Un fulmine mi ha colpito all’improvviso. Stavo sbucando sulla vetta del pizzo Roseg. Io alpinista esperto dove altro potevo lasciare la vita se non in cima ad un’affascinante montagna?». Leone Pellicioli era ancora un ragazzo, ma con la grande stoffa di chi conosce e vive tra le vette. Il suo busto in metallo troneggia su due rocce accostate a due tuie che paiono cipressi. Qualche ruga appena accennata sulla fronte. Un maglione a V, attraversato dalle corde utili alle scalate da cui emerge il collo della camicia. Leone ha un sorriso sereno e guarda dritto verso il resto del cimitero nembrese: «Qui c’è anche il mio collega Carlo Nembrini. Anche lui era un grande alpinista. Anche lui se n’è andato in montagna. Lui però sulle Ande. Stava tornando al campo. Insieme al suo gruppo aveva appena recuperato il corpo di un altro uomo che aveva consegnato la sua vita ai monti. È scivolato in burrone. Anche lui è tornato a casa, ma non sui suoi scarponi».

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