LA STORIA – Oncologia di Bergamo Anna ha perso i suoi riccioli ribelli “Non avere paura figlia mia. La tua mamma ti proteggerà E oggi si fa musicaaa…”

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Anna Ceriani

Quando si siede al bar di fronte a me, lo fa lasciandosi cadere con un sospiro. Ma nel suo andare verso il basso non c’è nulla di goffo, né il suo corpo trasmette un senso di pesantezza: al contrario la schiena si abbassa con grazia,

come mossa appena dal vento e, davvero, pare una nuvola che sfiora il bordo del tavolino. “Ciao Marianna”  le dico e d’istinto le prendo la mano, gliela stringo, e non la lascio, mentre le chiedo se è sicura di voler fare l’intervista. Mi guarda, sorride, si vede che è stanchissima. Poi posa gli occhi sulle nostre mani intrecciate, stringe le mie dita “Sì, certo che sono sicura”.

 

Sospira, ripensa alle ore appena passate. Me le racconta.

* *  *

Ciao Anna”. “Ciao mamma”. La voce della sua bambina arriva come sempre in un soffio, affaticata dalla lunga notte appena trascorsa quasi totalmente priva di sonno. Suo marito che si alza dalla poltrona–letto, dove anche per lui la notte era trascorsa pressoché insonne. Lei che gli dà il cambio in ospedale, in quella camera dove la loro bambina è ricoverata ormai da molti mesi e dove il suo piccolo corpo acerbo sta combattendo contro la leucemia. Seduta accanto al letto aveva guardato Anna: si sarebbe mai abituata a vedere tutti quei tubi che le martoriavano il corpo? Avrebbe mai potuto non sentire il pianto che le saliva in gola ogni volta che Anna la fissava dal profondo delle sue occhiaie scure e le tendeva la manina tanto pallida e fragile, che temeva sempre di rom­pere anche solo con una carezza? La sua bambina era in quell’ospedale ormai da così tanto tempo che ne conosceva alla perfezione il ritmo: l’orario dei prelievi giornalieri e poi il controllo del peso e della pressione, con le gambine esili che a volte tremavano tanto forte da non sorreggerla e doveva appoggiarsi alla sua mamma o all’infermiera per un improvviso mancamento. E così bisognava rifare tutto da capo, perché le misure erano falsate, sperando che per un attimo la forza fosse sufficiente e non si dovesse ripetere, ripetere e ripetere ancora. Cerco di interrompere il flusso dei pensieri; mi sembra che stiano andando verso un dolore intollerabile. Per me…“Certo in ospedale tutto entra in un tempo indefinito. E’ difficile mantenere il senso della realtà. Come fate a far passare il tempo?”. “Io e Anna abbiamo dei piccoli giochi. Abbiamo dei riti solo nostri, che si ripetono quotidianamente, ma a cui non rinunciamo mai”. L’orario della colazione per esempio è variabile e perciò è diventato un picco­lo gioco indovinarne l’arrivo: cinque minuti? Dieci? Mezz’ora? E chi avrebbe portato il carrello quel giorno? L’infermiera Lucia? O Maria? O l’unico uomo del reparto, Giuseppe? “Il tempo infinito di una giornata in oncologia si passa anche così: indovinando l’orario dei diversi avvenimenti ed inventando penitenze assurde”, mi dice Marianna e per un attimo segue con lo sguardo il cameriere che ci porta due spremute. Ma a tradimento mi pianta addosso uno sguardo sgomento e il succo mi pare improvvisamente troppo, troppo acido. Prosegue a raccontare, senza mollarmi gli occhi.

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