STORIE SCALVINE – PER CHI SUONAVA LA CAMPANA?

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Etta Bonicelli

Fin da bambini conoscevamo la morte. Nei nostri paesi era un fatto corale, veniva mostrata, condivisa. Già all’asilo ci portavano a salutare i soci benefattori defunti, stesi nel loro letto di morte. Con la suora andavamo al funerale e poi fin fuori dal camposanto a fare doppia ala al corteo funebre, le manine giunte, la mantellina nera del lutto. “Requiem æternam dona eis domine…”. Imparammo presto i riti religiosi e sociali della morte e li rappresentavamo celebrando il funerale a pulcini e anitrini che morivano nel pollaio.

Era un gioco di ruolo, serio e partecipato, che ripercorreva esattamente le sequenze della cerimonia funebre. Ognuno si ritagliava il proprio ruolo, io, dalla lacrima facile, ero una donna piangente in fondo al corteo. Erano lacrime vere come vero era l’affetto per i piccoli pennuti. E così si esorcizzava la morte.

Fin da piccoli avevamo imparato a conoscere la voce delle campane, ma nessuno era esperto come la mamma. Al primo rintocco da morto, ma proprio al primo, diventava seria, un segno di croce, e subito un l’Eterno riposo. Stavo con l’orecchio teso ad ascoltare i suoni successivi, sperando che quella volta la mamma si fosse sbagliata… No, era proprio la mesta campana a morto.

Allora si usciva tutti in cortile a contare con i vicini i gruppi di rintocchi separati da pochi secondi di sospensione, tre o quattro, a seconda se la morte avesse portato con sé una donna o un uomo…

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