TORRE BOLDONE – “Mia sorella Paola, strangolata e gettata in un fosso. Sono 21 anni che non accendo la tv. Dovevo scegliere: o farmi soffocare dal dolore o vivere, ho scelto la vita”

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Ogni volta che sento la notizia di un femminicidio è un colpo al cuore, mi riporta dritta a quel giorno del 2002 quando mia sorella Paola è stata ammazzata”. Inizia così, con un nodo alla gola, il racconto di Cristina Mostosi. 58 anni, originaria di Torre Boldone ma di casa a Bergamo da una ventina di anni, un lavoro in banca e una vita dedicata alla sensibilizzazione contro la violenza sulle donne da quel tragico 26 marzo che ha spezzato sogni e costretto una famiglia intera a guardare il mondo da un’altra prospettiva. Era un giorno qualunque, o meglio doveva essere un giorno qualunque, una mattina di inizio primavera che si è trasformata presto in un inverno gelido dentro al cuore. Femminicidio.  “Paola ha voluto far valere i suoi diritti e questa tragedia ci insegna che la violenza sulla donna può capitare a chiunque… lei non avrebbe mai pensato di fermarsi con il suo orco e io mai avrei immaginato che mia sorella potesse essere uccisa per questi motivi e in questo modo e che potesse morire prima di me”.

La notizia di un femminicidio per una sorella è difficile da ascoltare, ogni volta riapre quella ferita che non si può mai rimarginare davvero: “In quei giorni io e la mia famiglia avremmo voluto vivere in silenzio il nostro dolore e invece eravamo bombardati dai giornalisti che volevano informazioni, servizi televisivi, pagine di giornale… da quel momento non ho più acceso la televisione e sono 21 anni che non la vedo, però oggi, a differenza di allora, ci sono i social. E la notizia del ritrovamento di Giulia è arrivata mentre mi trovavo in un paese in provincia di Pistoia per inaugurare un’aiuola del mio progetto ‘Una iris per non dimenticare’ (a metà dicembre verrà inaugurata la 50^ aiuola in poco più di un anno, ndr) e per fare un momento di informazione e di prevenzione… stavo parlando di violenza… Ogni volta che sento parlare di un femminicidio, e purtroppo in questi ultimi anni sono aumentati in modo esponenziale, rivivo quello che ho vissuto con i miei genitori quando è stata ammazzata Paola”.

E da quel 26 marzo 2002 cosa è cambiato? “Il problema della violenza sulla donna è un problema culturale e per smantellarlo servono almeno 100 anni e dall’omicidio di mia sorella ne sono passati 21. C’è stato un leggero cambiamento per quanto riguarda l’opinione pubblica e la sensibilità collettiva. Poi quando vedo la seduta al Senato per discutere la legge sulla violenza sulle donne e l’aula era… deserta. Cosa provo? Sdegno, perché non mi trovo rappresentata, sembra che il popolo sia un’altra cosa, che la politica sia completamente scollegata da quello che succede nella realtà”.

Cristina ripercorre quei momenti terribili, Paola è stata ritrovata da un contadino, gettata in un fosso dopo che il camionista di Verdellino l’aveva sequestrata e poi uccisa: “Abbiamo passato un giorno e mezzo senza sapere dove fosse, cosa potesse essere successo. Io, mio fratello e i miei genitori quel giorno siamo morti insieme a lei. Non mi sembrava vero quello che era successo, sono stata io sul luogo del ritrovamento, l’ho riconosciuta io, ricordo ancora i Carabinieri attorno a me che piangevano… a differenza di oggi, allora non se ne parlava e non c’era quella sensibilità. Dopo il funerale la mia famiglia è rimasta da sola, nel dolore, non c’è stata nessuna eco, ma io non ho voluto fermarmi”.

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SCHEDA

Paola, legata, imbavagliata in un camion, poi strangolata. L’uomo incastrato dal cellulare della vittima regalato alla moglie

Paola Mostosi, aveva 24 anni e viveva a Torre Boldone insieme ai suoi genitori. La mattina del 26 marzo 2002, era uscita da casa e, imboccata la A4, si stava dirigendo in ufficio. Pochi mesi prima di essere uccisa si era laureata in Economia e lavorava in uno studio di commercialisti. Poco prima di raggiungere il casello di Dalmine si accorge che il camion davanti a lei sta perdendo del materiale che è finito sulla sua auto, una Y10 che le era stata regalata da poco dal papà, danneggiandola. Entrambi si fermano in una piazzola di sosta per compilare la constatazione amichevole, ma la situazione degenera.

Il camionista, Roberto Paribello, originario di Salerno ma di casa a Verdellino, inizia a metterle le mani addosso e lei minaccia di denunciarlo. Lui la afferra e dopo averla spinta sulla cabina del suo camion, la ammanetta. Per tutto il giorno Paola resta su quel camion, legata e imbavagliata, perché nessuno possa sentire le sue urla, le sue richieste di aiuto.

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