La Valle dai grandi lavori della Diga su al Gleno e dai progetti delle altre quattro dighe minori si era aspettata una rinascita economica e scopriva che donne e bambini venivano usati per quattro soldi e gli uomini pochi, e solo per lavori di manovalanza.
Vennero reclutate le donne: si avviavano da Valbona dove si produceva la calce, con il loro carico sulle spalle, sacchi di materiale edilizio, su per i sentieri e poi il viottolo che portava alla diga: “Ho lavorato per il Viganò. Lui aveva un piccolo mulo, ci montava sopra e io lo conducevo fino alla diga e poi riportavo indietro l’animale, quando doveva fermarsi là, in ogni modo in discesa si poteva anche fare a meno del mulo. Le altre donne portavano sabbia e cemento, due viaggi al giorno. Le donne erano nella maggior parte di Colere e Dezzo. In un certo senso io ero perfino fortunata, non avevo pesi da portare”. (Elisa Moreschi – Vilminore).
Nell’aprile 1918 la ditta trasmette al Comune di Vilminore l’elenco delle operaie che richiedono il libretto di lavoro e di maternità: Erano 14 donne: 7 di Vilminore e 7 di Colere, di età compresa fra i 18 e i 29 anni.
“Non accettavano volentieri gente di Pianezza a lavorare alla diga. Non so perché. La maggior parte degli operai veniva da fuori valle. Gli abitanti di qui emigravano”. (Domenico Magri – Pianezza di Vilminore).
“Il sagrestano di Vilminore mi raccomandò ai comandanti del Gleno. Avevo 11 anni. Mi impegnavo a raccogliere sassi per il frantoio. Arrivavo il mattino da Teveno con gli zoccoli chiodati, andavo al frantoio. Si lavorava per 10 ore al giorno. Il Viganò lo vedevo una, al massimo tre volte la settimana: era un bell’uomo, superbo, caparbio, con un cappello di paglia e bestemmiava continuamente, un vulcano di improperi”. (Severino Piantoni – Teveno).
“Mio padre lavorò per tre anni su alla diga in qualità di fabbro. Diceva che i lavori non venivano eseguiti bene dal momento che si lavorava a cottimo. A volte le plance che sostenevano i binari venivano lasciate nella muratura (…). I piloni e le arcate erano costruiti malamente tanto che gli ingegneri, visto che la diga perdeva acqua, avevano predisposto un progetto per uno sbarramento più in basso per recuperare l’acqua che usciva dalla muratura principale” (Angelo Piantoni – Dezzo).
“La colpa è anche degli ingegneri del Genio civile: quando hanno fatto il collaudo, la diga perdeva acqua da ogni parte” (Angelo Romelli – Meto).
Alle paure della gente per quell’acqua che sprizzava dalla diga nei posti sbagliati e alle richieste di svuotare la diga e riparare le falle, soprattutto alla base, il Viganò rispose: “Io ho costruito la diga per tenerci dentro l’acqua, non per lasciarla andare”.
Ma l’inquietudine serpeggiava tra la popolazione. Tutti ormai “sapevano” che la loro condanna era avere una minaccia sulla testa.
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