Agostino Morandi*
Attraverso un’attenta lettura di una quarantina di lettere che Virgilio Viganò ha inviato ad un amico e collaboratore in Valle di Scalve dal 1924 al 1928, si comprende come egli stesso e la sua famiglia debbano essere considerati in un certo senso, pure in contrasto con la pubblica opinione, danneggiati e vittime del drammatico evento. Un grande numero di queste missive è listato a lutto: segno evidente che conferma la partecipazione al dolore da parte della “fraterna Viganò”. Anche se generalmente si avalla in ogni circostanza la tesi della assoluta colpevolezza della ditta Viganò in merito allo scoppio della diga, non mancano tuttavia elementi che fanno ritenere che qualcuno, unitamente a strane coincidenze, abbia agito con il solo scopo di fomentare con ogni mezzo l’avversione nei confronti dei Viganò: tutto questo avrà poi un peso in occasione della condanna degli industriali cotonieri di Ponte Albiate.
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I periti dei Viganò, gli ingegneri Baroni, Granzotto, Kambo e Marzoli, nel corso dello studio effettuato in preparazione del processo del 1924, affermano infatti, a pag. 59 della relazione: «L’opinione pubblica, come accade sempre dopo il crollo di una grande opera aveva subito decisamente condannato progettisti e costruttori (…). I giudizi di pura impressione che sono in simili avvenimenti pronunciati facilmente anche da tecnici competenti (cioè, i periti nominati dal tribunale, n.d.a.), le testimonianze che spontaneamente sorgono dal pubblico clamore ed assumono aspetto di verità (…) avevano decisamente influenzato l’opinione pubblica verso la condanna di progettisti e costruttori».
Secondo gli esperti di parte dunque è possibile che tali condizioni abbiano «esercitato la loro influenza sulla ricerche dei signori periti del Tribunale». L’esame delle lettere di Virgilio Viganò, che nel 1918 succede al fratello Michelangelo nella direzione dei lavori della diga per conto della ditta «Galeazzo Viganò», invita ad una serie di considerazioni e riflessioni con le quali non si vuole offendere nessuno, tantomeno la memoria delle centinaia di vittime innocenti.
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La prima lettera risale al 18 dicembre 1924:
«(…) Io pure ho spedito L. 500 al Parroco di Dezzo per l’ufficio (del primo anniversario n.d.r) non sapendo cosa fare altro dato le continue ostilità e affronti fattimi. In quanto al desiderio che ritorni in Valle a ripristinare l’impianto non puoi dirlo a tutti che il mio più forte dolore (oltre quello delle povere vittime) è stato quello d’essermi visto così allontanare dalla Valle come un colpevole e senza cuore dando così man forte ai nostri nemici (i grossi industriali danneggiati, n.d.r.) per rovinarci completamente? Mentre s’io fossi rimasto in Valle anch’io come un danneggiato e vittima come tant’altri, quest’ora quanto si sarebbe fatto per soccorrere specialmente i piccoli danneggiati rimasti senza casa e senza aiuto. Non schiacciati sotto l’imposizione e la denuncia di responsabili e quindi sotto sequestro, avremmo avuto la possibilità di soccorrere i più bisognosi a quest’ora l’impianto (anche senza diga) sarebbe di nuovo funzionante e tutti i danari che si sarebbero incassati si sarebbero potuti distribuire ai danneggiati. Invece così tutto deperisce a danno di tutti. (…) Ma chi è alla testa per dirigere gli altri (cioè, i piccoli danneggiati, n.d.r.), se invece di volerci strappare per forza l’avere della nostra ditta come a dei colpevoli che devono pagare per essere condannati (…)».
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