VAL DI SCALVE – STORIA DI UN DISASTRO ANNUNCIATO – Un boato, poi la diga crollò

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Era una mattina come le tante dell’inizio di un inverno qualunque. Era nevicato e piovuto molto, per giorni e giorni. I ragazzi stavano preparando i pochi libri e quaderni, la matita, il pennino che si era rotto, la cartella. In cucina la stufa ronfava, il latte che bolliva nel pentolino, la mamma affaccendata con scodelle e un pezzo di pane, il marito che andava al lavoro, i ragazzi a scuola. Nelle chiese della valle la messa “prima” era finita da un pezzo, “ite missa est” che allora le Messe ara ancora in latino ma quella frase la sapevano tutti e quindi tutti a casa dopo un segno di croce frettoloso che c’era il lunario da sbarcare. Allora il giorno era scandito dalle campane e dai gesti consueti di ogni mattina.

Erano passate le sette del mattino da pochi minuti.

D’improvviso si levò un forte vento che faceva sbattere le “ante” e le porte, a dicembre non c’è vento, cosa può essere, un temporale fuori stagione? Le imposte presero a sbattere sempre più forte. La gente alzò la testa, guardandosi intorno, impaurita come sempre quando succede qualcosa fuori stagione. Qualcuno uscì in strada ed ebbe appena il tempo di vedere arrivare “il disastro”. Lo chiamarono da subito così.

Lo si aspettava. Tanti, troppi sapevano che la diga lassù nella valle del torrente Povo non avrebbe retto. Non era stato di conforto quello che aveva scritto sul giornale parrocchiale il parroco di Bueggio inneggiando alla diga che stava sopra il paese definendola “Massiccia e Maestosa. Non temete, par che dica, vi proteggo io”. Era l’11 novembre 1923. Già il fatto di dover rassicurare i propri parrocchiani era un’ammissione della paura diffusa tra la popolazione. La gente credeva ai parroci, a quel tempo, ma non era cieca, gli occhi c’erano per vedere, la diga “faceva acqua da tutte le parti”, si raccontavano le ruberie, i lavori che procedevano con gli operai con l’acqua ai piedi, la sabbia mal lavata, le impalcature rimaste nella malta, sacchi di cemento “rubati”, perfino le carriole di legno buttate nel bitume per “fare volume”.

Nei giorni precedenti quella terribile mattina del 1° dicembre 1923 c’era stata una pioggia continua, le falle e le crepe nella grande muraglia erano a vista, “pisciava getti d’acqua di una ventina di metri nella valle”. Le testimonianze raccolte negli anni settanta tradivano rabbia e senso di impotenza e anche qualche rimorso.

E poi il boato, una fiumana di nebbia e acqua che piombava sulle case. Bueggio era la frazione appena sotto la diga, la case più in alto rimasero in piedi, la maggior parte, con la chiesa, travolte, atterrate, distrutte con la gente dentro che cercava scampo su per le scale di legno, sui solai. La chiesa sventrata e nei ricordi quel campanile che avanzava nella piana, ritto tra terra e cielo, a segnarne il confine, prima di arrendersi nel mare di fango. La prima centrale idroelettrica, già in funzione, investita lanciò fiamme verso il cielo. Poi l’altra centrale sotto Vilminore.

Qui stava la villa costruita dall’imprenditore che aveva fatto costruire la diga, il Viganò: “Sentimmo un rumore, i vestiti ci si bagnarono, pensammo si fosse rotto il canale che portava l’acqua al bacino di Santa Maria. Chiamammo il Viganò. Quando uscì capì subito, si buttò per terra e picchiava la testa sui sassi” (Catì Bonicelli).

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