“Vai a prendere il nipotino?”. Il ragazzone (non so attribuirgli un’età) di colore sbarca il lunario aiutando la gente a parcheggiare, fuori dal grande ospedale. Ha il sorriso di chi spera ci scappi almeno una mancia, in fondo quando sono arrivato mi ha fatto grandi segnali per un parcheggio disponibile, in realtà ce ne sono almeno una decina liberi, ma vuol rendersi utile, della serie, non chiedo elemosina, chiedo un compenso, anche modesto. Traffico col cestone per neonati e dai movimenti devo sembrargli appunto un nonno. “No, vado a prendere mio figlio”. Il giovane tira indietro la testa come immagino (immagino) faccia uno che si trovi di fronte una bestia rara, perché per quelle feroci credo se la sarebbe data a gambe levate.
Il giorno prima in camera era entrata un’infermiera o forse solo un’inserviente, non ho imparato a distinguere i colori dei camici che indossano. “Fuori tutti i parenti tranne i papà”. Se ne vanno tutti, ho la disavventura di restare solo, lì ai piedi del letto dove mio figlio è in braccio alla sua mamma. Tea se lo coccola. L’infermiera mi guarda: “Ho detto fuori tutti, anche i nonni!”. Dai sono soddisfazioni… “Appunto, io sono un papà”. E’ la prima volta che lo dico e nel dirlo mi rendo conto di quello che è cambiato, il mio status, la mia vita, oddio, sono papà, a sessant’anni suonati sono diventato papà!
Uno non ci pensa. Era la sera del 30 gennaio quando a Tea si sono “rotte le acque”. Quando si è giovani sono espressioni ricorrenti, tra scapoli e ammogliati, prima dello scontro annuale, ci si scambiavano esperienze e gli scapoli (quorum ego) vantavano vite di libertà perdute (per gli ammogliati) e non solo sessuali. Poi sugli spalti c’erano i bambini che incitavano e applaudivano i loro papà, a noi nessuno batteva le mani, tifavano tutti per loro. Ci sentivamo un po’ orfani, figli di nessuno. E quando si tornava a casa ci si sentiva un po’ più soli, va bene il lavoro, altro cui pensare e penare che cambiare i pannolini e sentire uno che strilla tutta la notte, vuoi mettere stare in giro tutta notte, si gira, si gira… già, ma non ci si incontra mai.
Era il 2006, un anno grandioso, di lì a poco avremmo vinto i mondiali di calcio. E Mattia è nato il 31 gennaio. Il nome lo abbiamo scelto frugando nei ricordi biblici. S. Mattia è il tredicesimo apostolo, quello che sostituisce Giuda che si è impiccato, arriva tardi, ma ha conosciuto e seguito Gesù. Ma è sul quel “tardi” che c’è affinità. A 60 anni si è nell’età in cui si studia da nonni, si diventa più tolleranti, meno rigidi, le grandi utopie per cui si era disposti a giocarci se non la vita almeno la carriera, si sono sciolte come neve di marzo, certe delusioni stemperano le animosità. Uno dice, verso il tramonto si va di fretta…
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